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Scipione Severino

 

 

 

ricerche a cura di IniziazioneAntica


 

Studio

di

Massimo Marra

 

 

 

Di Scipione Severino, rigorosamente escluso dai dizionari biografici, dalle raccolte di storia locale e, cosa assai più strana, dalle varie storie dell’alchimia e dell’ermetismo, sappiamo assai poco. 

Sappiamo, dal frontespizio delle sue opere, che egli era un nobile napoletano fiorito in pieno XVII sec., sappiamo che il suo casato era quello dei Severino Longo, un’antica famiglia nobiliare di uno dei Seggi principali, quello del Sedile di Porto. 

Scipione stesso, oltre che nel frontespizio delle sue opere, nella battuta di commiato di Graziano, l’alchimista che dialoga con Pulcinella nel Pulcinella Filosofo Chimico, fa dire al suo personaggio: 

… Salutatemi Don Scipione Severino vostro paesano, e ditegli che se l’istorie dicono lui essere discendente dei Padroni della Città d’Ancona, e sua Marca, e della città di Leone in Francia, io son discendente dei Signori di Bologna… 

Una famiglia in vista, dunque, ed indubbiamente di peso, nella Napoli Vicereale.

Ancora, con mal celato orgoglio, Severino, nel frontespizio di tutte le sue opere fa apporre la frase: “Mandato in luce dal nobile D. Scipione Severino napolitano discendente di Boetio Romano”. Si può scommettere che per il filosofo ermetista Scipione una tale pretesa discendenza non era solo una questione di prestigio pubblico, ma anche e soprattutto l’orgoglio di una presunzione di eredità, un lascito filosofico che il filosofo della natura seicentesco sentiva in rapporto alla grande figura del filosofo, matematico, musicologo e teologo romano.

 

 

 

Di questo dimenticato alchimista conosciamo:

 ·      Il Cannocchiale chimico del nobile Scipione Severino napolitano, Venezia 1631.

 ·      Il Pulicinella Filosofo Chimico, dalli Filosofi spalleggiato col modo di fare Oro e Argento, dove sta incluso il dittionario filosofico, Venezia 1681.

 ·      Glosa sopra Raimondo Lullo e sopra la Turba Filosofica per prodursi oro et argento mediante la natura e l’arte, Venezia 1684.

 ·      Filosofia Alchimia seu’ scienza vigorativa dell’anima aurea, Venezia 1695.

 

Il Ferguson (Bibliotheca Chemica, vol. 2, p. 379), citando a sua volta Gmelin (Geschichte der Chemie, 1799) cita una quinta opera, un Trionfo dell’Alchimia (Venezia 1691) di cui però non abbiamo altra traccia. Non è improbabile che il luogo di edizione così come la data del Cannocchiale (di cui del resto ci è rimasto solo il frontespizio, probabilmente malamente incollato nel corso di una maldestra rilegatura in una copia del Pulicinella oggi alla Biblioteca Nazionale di Napoli) siano soggetti a cautela.

Si tratta di opere oggi rarissime, che se tali opere non dovettero godere del gran numero di ristampe, traduzioni e citazioni che riguardarono le opere di altri alchimisti coevi (ad esempio i vari opuscoli del contemporaneo modenese Lancilotti, così come, un secolo prima, i famosi, ed a tratti bellissimi, Secreti della alchimista Isabella Cortese, o quelli firmati da Alessio Piemontese, al secolo l’erudito e letterato Girolamo Ruscelli) fu probabilmente per il carattere squisitamente e puramente ermetico e filosofico dei suoi trattati, che non contenevano, se non episodicamente, ricettari e raccolte di composizioni medicinali per uso pratico e farmaceutico che, nei trattati di altri alchimisti quali quelli citati, costituiscono invece parte integrante e talvolta, preponderante. Scipione, fin dal titolo della sua opera più nota, specifica ciò che lo interessa della scienza alchemica: la scienza vigorativa dell’anima aurea. Nulla di più lontano dal pensiero dell’autore che i rimedi per la gotta, il mal francese ed ogni sorta di malanni che possano affliggere l’umanità, e nulla di più indigeribile, dunque, per il vasto pubblico dei lettori praticanti la medicina e le spetierie. 

D’altro canto l’alchimia di Severino, più in generale, sembra distaccarsi da quella precedentemente sviluppatasi nel Napoletano per la sua sostanziale distanza da ogni evidente interesse naturalistico e scientifico. Formule e ricette sono esposte in modo frettoloso ed appena accennato ed è evidente che non hanno alcuna relazione con qualsivoglia esperienza di manipolazione ed osservazione diretta dello scrittore. L’alchimia di Severino è palesemente orientata ad un’esposizione simbolica in cui la metafora spagirica e metallurgica è mero pretesto, dove, in realtà, mancano del tutto i concetti di investigazione ed esperienza, che troviamo invece nell’alchimia di Della Porta od in quella di altri predecessori. 

Si è, in pratica, tentati di attribuire all’autore l’opinione che Pulcinella esprime nel Pulicinella filosofo chimico: “… Stiami aperta l’osteria, che del resto poco me ne curerei delle spezierie...”. Opinione che non possiamo che condividere. 

Eppure, le opere del nobile Scipione un pubblico dovettero pur averlo, forse un pubblico più vicino e vasto di quanto si possa sospettare, al cui espresso uso e consumo le opere furono probabilmente composte, ovvero il pubblico dei “sig. Filosofi Chimici Napoletani” cui si rivolge il Pulcinella filosofo chimico nella dedica posta ad apertura dell’opera. 

 

 

Nel recensire brevemente al n. 306 del suo catalogo la “Glosa sopra Raimondo Lullo e sopra la Turba filosofica, Per prodursi Oro, et Argento, mediante la Natura e l’Arte. Dilucidata dal nobile D. Scipione Severino Napolitano” (Venetia 1684).

Vinci Verginelli nella Bibliotheca Hermetica scriveva a proposito di Scipione Severino: “Poco noto l’autore. Conosce i classici dell’ermetismo e sembra averne desunto un testo breve ma sostanzioso, anche se grezzo e confusionario. Utile lettura.” 

Sia nella collocazione dell’alchimia all’interno della filosofia aristotelica che nel definirne limiti e prerogative, Severino conosce ed utilizza sinteticamente motivi direttamente mutuati dal dibattito sull’alchimia sviluppatosi per tutto il medioevo padroneggiandone tematiche e polemiche. 

La praxis alchemica si inquadra in una visione cosmologica che il Severino mutua direttamente dalla tradizione ermetica e che egli, del resto, non manca di esplicitare: 

…Li quattro elementi sono li principi indifferenti di tutte le cose, ma poi deventano specifici per li semi particulari formali dependenti dalli Pianeti, o dalli semi materiali differenti dalli virtuali sudetti. (Filosofia…, p. 29) 

L’Agente universale remoto del Mondo è il Sole, e li suoi raggi solari sono stimati dalli Filosofi Hermetici l’anima vegetativa et l’ignis elementare, anco il sutterraneo universale. Et il particolare è il prossimo. Et sono enti distinti, più o meno fissati nelle cose tutte, piante, animali et metalli…la Materia universale del Mondo è l’acqua. 

Li metalli si compongono dalla Natura nel modo seguente.

L’ignis elementare centrale s’introduce da sé copiosamente nell’acqua con una terra sottile chiamata Solfo, o sale bianco. Per il che l’acqua, per il calore sutterraneo, salisce verso sopra nelle miniere in fumi acquei partecipanti d’arsenico o di solfo o d’ambedue (da Noi chiamati fumi sulfurei quando svaporano, come succede verso Pozzuolo). Quali fumi non svaporanti nelle miniere deventano butiro lattaginoso, seroso, viscoso, poi arsenico, poi risigallo, et poi oro perfetto, separato dall’impurità terree grosse sulfuree, quale butiro è chiamato Mercurio, et è tale, pregno d’Ignis, a differenza del mercurio vulgare, molto scarso, per natura, d’Ignis. Tale butirro, o la parte mercuriale dell’arsenico et del risigallo la possiamo stimare il Sofico della Natura. Ma se detta acqua sulfurea mercuriale, o detto butiro, participarà più di solfo impuro, et rosso, n’insorgerà il ferro; ma prevalendo l’opposto insorgerà metallo vile o prezioso a misura della purità, mercureità et sulfureità bianca et loro quantità, deventando oro all’ultimo con più tempo. Siché unico è il seme metallico, et generico formale dependente dalli Pianeti, influito nell’acqua ignea sudetta, facile a recevere l’impressione seminale come corpo fluido.

Et detti metalli stanno in moto continuo, finché perfettamente per Natura sono fissati in oro perfetto, nel quale tempo cessa il detto moto… (Filosofia…, pp. 16-17)

I metalli, generati ed evolutisi nel grembo della terra, come nella più pura tradizione alchemica classica, tendono alla perfezione dell’oro, a misura che più pura e presente è la componente dell’Ignis elementare, l’unica in grado di fissare e dignificare i metalli.

Compito dell’alchimista, dunque, è liberare e purificare la potenza dell’Ignis elementare, in varia misura e purezza sepolto e dormiente nelle nature metalliche. L’alchimia, dunque, non trasmuta l’essenza delle nature metalliche, ma piuttosto ne libera appieno la potenza ignea, liberandola dalle fecce e dalle impurità, dagli accidenti sensibili che ne impediscono la piena espressione e che ne ostacolano dunque l’evoluzione verso gli stadi più puri del mercurio e dell’oro. La materia prima, la matrice occulta di natura sublunare, segreta custode dell’Ignis elementare è dunque l’oggetto principale di investigazione. É essa che media la trasmissione degli impulsi vitali dell’Ignis, che lo nutre e lo vivifica.

La detta Scienza c’invita con oscuri documenti all’esigere l’ignis elementare della materia dell’oro, e dell’oro medesimo, dopo redotto in corpo. Quale materia naturale produttrice dell’oro sta molto bene celata dalli Filosofi, li quali suppongono che il firmamento sia il cielo d’ignea sustanza lucidissima e fissa, dando splendore all’altri cieli et Pianeti, et in specie al sole, et anco le virtù tutte. Et che il cielo della Luna, quale sta verso terra il più prossimo, sia il ricettaculo delle dette virtù. Et tanto per il moto del detto cielo lunare et della Luna, quanto per il moto del sole, et loro ragi sparsi per l’aria, le dette virtù s’influischino alle cose del Mondo. Et in specie all’ignis incluso nelli sali delle dette cose et dell’acque, come corpi molli et fluidi. Siché per detto loro moto si muovono l’acque del mare, et passando per le case delli Pianeti li stuzzica alla pioggia, serenità, et all’influire felicità et l’infelicità, generatione, conservatione et morte delle cose inferiori della terra, per essere li detti Pianeti Cause fisse et destinate dalla somma Sapienza Divina per Dominanti delle cose naturali vegetabili, animali et piantari. Eccetto dell’anima rationale Spirito di suprema perfettione non suggetta a detti pianeti, con le sue potenze, volontà, memoria et intelletto, sette volte più lucida del sole, se senza peccato, S. Caterina disse.

Li detti spiriti, seù vapori del sole sparsi per l’aria quando si trovano racchiusi nell’animali, piante et metalli, acquistano altro nome, et si chiamano anime vegetative, et tanto per la propria igneità quanto per l’igneità dell’acque arsenicali sulfuree, deventa di Natura metallica quando in esse si racchiude, et anco possiede tutti li nomi descritti nelli libri …. Essa è il principio d’ogni vegetazione, generatione et fecundità, perché muovendosi per il corso del sole, et essa ritrovandosi nelle dette cose naturali, stuzzica l’ignis elementare loro…e per essere l’ignis magnetico, attrahe l’igneità dalla terra, pioggia et dall’aria con loro elementi, deventando d’igneità maggiore et di magiore quantità d’elementi.

Essa è la Quintessenza nominata delli Filosofi, della quale dissero “descendit ex celis et iterum ad calos ascendit… (Filosofia…, pp. 27-28)

Queste, dunque, le coordinate tradizionali su cui si innesta e si sviluppa l’alchimia di Severino, l’affannoso rincorrersi di ricette ed istruzioni che riempiono le sue pagine. Trarre dalla materia l’anima essenziale, l’Ignis primordiale, per restituirne la percezione purificata e trasfigurata della originaria divinità. Esigere, attraverso la conoscenza e la pratica dell’Alchimia, l’aurea solarità della Pietra Filosofale dalla materia bruta. Al lettore, come in ogni testo alchemico, rimane l’onere della decrittazione, l’obbligo di sintonia col codice utilizzato. Qualunque sia la materia di partenza dell’operatore, don Scipione avverte:

Il preparare non è altro che levare il soverchio e soccorrere supplendo le cose giovevoli.

Li metalli perfetti si preparano spiritualizzandoli.

Li metalli imperfetti si purificano con lungo fuoco reverberatorio, acciò perdino le parti volatili, poi se ne cavano li loro sali, si sbiancheggiano e poi si spiritualizzano…

L’Antimonio deventi Regulo.

La Marcasita sublimi con tre cappelli levandosi l’uno dopo l’altro, e conservando solamente la terza roba sublimata bianca, o si reiteri.

L’orpimento sbruffato coll’aceto due volte stillato, tre volte sublimi in detto modo… (Glosa…, p. 29)

Ed è in questa triplice sublimazione adombrata in tutte le opere del Severino, e in generale nell’intera letteratura alchimistica, che, per la tradizione, si concentrano e si realizzano le speranze e le preghiere dell’artista ermetico, fissato che sia il bianco prodotto dell’opus. E a coloro che dovessero, nel confuso susseguirsi di formule e ricette, perdere il filo di Arianna che guida l’iniziato fuori dal labirinto, non manca un avvertimento chiaro:

Le chiavi dell’arte sono recalcinare, reestrahere, resublimare, reestrahere, redistillare, revolatilizzare, refissare, reincerare, redissolvere etc. fin’al bisogno.

E vi assicuro che per via di tutti li mezi minerali, delli loro spiriti, ogli et acque graduatorie non possederete argento fisso, né Mercurio fisso, perciò non crediate a tante ricette che vanno per il Mondo… (Glosa…, p. 15)

 

Abbiamo, alcuni anni or sono, dato l’edizione critica dell’opera forse più interessante e stimolante dell’alchimista Severino, in cui a discorrere dell’alchimia ci sono nientedimeno che Pulcinella stesso e la maschera bolognese Graziano. 

Filippo Finella così come appare dal ritratto stampato nel suo De Planetaria naturali Phisonomia (Napoli, 1649). 

Nel quadro culturale di fine ‘600, l’alchimia teorica, speculativa e, in ultima analisi, simbolica di un Severino, così come quella dell’Argenno del dialogo di Grosso, costituiscono proprio la traccia evidente di una crisi ed una ridefinizione epistemologica dell’alchimia tradizionale, che si ricolloca su di un piano nuovo e diverso da quello della precedente tradizione spagirico-iniziatica che aveva caratterizzato l’ambiente alchimistico napoletano fino alla prima metà del Seicento. 

Naturalmente inconciliabili con lo sperimentalismo analitico cartesiano e razionalista della nuova scienza che si andava delinando in quegli anni, le opere del Severino, pur preoccupate di fornire sommarie prove di ortodossia scientifica di stampo aristotelico, nel loro essenziale impianto ermetico e simbolico risultano ancor più distanti dall’aristotelismo pietrificato della cultura ufficiale. 

L’alchimia in tal modo abbandona il suo equivoco status di scienza, che per tutto il Medioevo ed il Rinascimento aveva tentato di affermare, e si ritrae nel piano misterico dell’occultismo, del simbolismo. Il suo armamentario linguistico infarcito di tecnicismi rimanda ora solo alla componente esoterica e simbolica dell’Arte, che si libera del ruolo di chiave interpretativa e di indagine del reale. 

Il lavoro di riscoperta della natura sottile, dell’aspetto occulto della realtà, avviene dunque solo nella sfera interiore, attraverso una praxis rituale ed immaginativa che rende l’essenza della scienza di natura esclusivamente teorica, ossia filosofica. 

In effetti, nel riconsiderare le tracce lasciate dagli alchimisti napoletani predecessori del Severino, possiamo affermare, infatti, che l’ermetismo alchemico degli ambienti napoletani a cavallo tra XVI e XVII secolo si configura come caratterizzato da una spiccata tendenza naturalistico-sperimentale. Il mago Della Porta, il medico Maranta, lo spagirista Stigliola, lo speziale Imperato inseriscono il proprio percorso rigenerativo in una praxis in cui il ruolo analogico tradizionale dell’alchimia manipolatoria, materica, si conserva intatto, funzionale. 

 

 

La téchne distillatoria e la problematica trasmutatoria dei metalli continuano ad essere, nell’ottica di questi filosofi, passi essenziali di un’opera di redenzione della realtà che procede parallelamente tra visibile ed invisibile, in un lab-oratorium in cui l’imperativo, ad ogni livello, è inseguire le orme della Natura maestra tra le vetrerie ribollenti delle materie grossolane della natura naturata. La distillazione spagirica è dunque necessaria ed analogica all’operazione dell’alchimia interiore ed il solve et coagula realizzato nei vetri degli alambicchi è la porta simbolica, il riflesso naturale di quello propiziato dal fuoco immateriale della trasmutazione interiore. Viceversa, come abbiamo visto, per il Grosso l’alchimia può essere scienza speculativa, iniziatica, simbolica, che vive più tra le pagine a lungo meditate di vetusti volumi che nel calore delle fornaci. Nel Dialogo Anagrammico la contesa tra Argenno e Giacheto, che probabilmente riproduce i toni di un dibattito allora vivo tra i cultori dell’Arte, si conclude contemplando una sostanziale parità, una rispettosa conciliazione tra l’aspetto sperimentale e quello contemplativo. Per il Severino, che pure assume in pieno il vocabolario tecnico-metallurgico alchimistico, l’esposizione della dottrina tradizionale desunta dai testi classici, universalmente accettati come tali, scopertamente, non si può accompagnare all’investigazione sperimentale. Nel porre un incolmabile abisso tra gnosi e pratica di laboratorio, nel Filosofia… Severino non manca di confessare: “… noi ci delettiamo sapere, et non di fatigare”. Lo stesso Graziano, l’alchimista del Pulcinella, non manca di specificare: “… quanto v’ho insegnato lo so per studio, e non per pratica, ed in Napoli non mancano persone atte ad aiutarvi se non sarete avaro...”. 

Il Filosofo, in possesso delle chiavi che regolano il rapporto tra microcosmo e macrocosmo, adepto dell’arte che libera la divinità della materia, non ha bisogno di conferma sperimentale. Il suo compito è dunque l’esposizione di dati teorici tradizionali, la cui valenza simbolica è preordinatamente superiore ed indipendente ad ogni verifica analitica. 

Con le opere di Grosso e di Severino Scipione, la visione unitaria e cosmica dell’operazione alchemica si rompe. Si realizza, nell’alchimia napoletana, la cesura tra l’investigazione magico-naturalistica e sperimentale del Della Porta e dell’Imperato ed il linguaggio esoterico e simbolico della gnosi ermetico-alchemica. Sulla soglia della rivendicazione storica di autonomia filosofica ed epistemologica del metodo scientifico dall’universo filosofico e magico dell’eredità medievale, è nel contempo l’alchimia stessa che si libera dall’esigenza di una coerenza sperimentale, di una conferma empirica ed analogica. Mentre la chimica muove i suoi passi di scienza analitica, distaccandosi dalla progenitrice alchimia, questa sembra allontanare da sé la figlia ribelle, rivendicare un’emergente ed a lungo malcelata identità speculativa e mistica, una libertà che è, contemporaneamente, il sintomo del crollo della visione cosmica ed unitaria della creazione di matrice rinascimentale. 

L’alchimia cessa di essere indagine cosmologica che integra l’umana trasfigurazione in una unitaria concezione e trasfigurazione della natura per divenire scienza di ripiegamento interiore, di indagine più propriamente introspettiva, indipendente, se non nella struttura dottrinaria tradizionale, nella concezione e nell’approccio dei suoi propugnatori da ogni conferma analogica e materiale. Una separazione, questa, che segna in Europa il grande passaggio dalla fase paracelsiana a quella più propriamente barocca del rosicrucianesimo e che, nella storia dell’ermetismo napoletano, è il prodromo dell’alchimia speculativa, simbolica e rituale che, in pieno Settecento, si vedrà scaturire dalla massoneria napoletana. 

Il vocabolario tecnico, il recipe, il simbolismo chimico rimandano semplicemente e scopertamente ad una mera codificazione convenzionale. L’alchimia diviene scienza speculativa, legata ad un vissuto puramente simbolico ed immaginale, ed il suo codice simbolico cessa di essere operativamente collegato, per l’autore, ad un orizzonte di ricerca sperimentale sulla concretezza di una materia diversa da quella del corpo stesso dell’operatore. L’Io narrante si separa dall’ambiente della narrazione, la natura ed il soggetto, tra il crogiolo e la preghiera, negano, nei fatti se non nella teoria, la propria consustanzialità, consumando definitivamente la fine dell’immanenza del divino nella materia. 

Alle soglie della chimica analitica di Lavoisier, il Severino, conduce la sua alchimia sul livello simbolico e metaforico puro, aprendo la strada al simbolismo speculativo dell’ermetismo rituale e massonico settecentesca che, proprio tra le fila della nobiltà napoletana, ed in figure come Raimondo di Sangro, troverà uno dei suoi più fecondi centri di trasmissione.

 

 

 

 

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