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Giuseppe Francesco Borri
Una ricerca a cura del dott.Braco Luigi
Nacque a Milano il 4 maggio 1627 da Branda e
da Savina Morosini, che morì nel 1630 poco dopo aver dato alla luce il
secondogenito, Cesare.
I Borri vantavano una nobiltà antichissima: "dai Borri di Roma si possono
credere originati" (G. P. de' Crescenzi, Amfiteatro romano, I, Milano [1648]; F.
Calvi, Famiglie nobili milanesi, Milano 1882, tav. VI). Discendevano - si diceva
- da Afranius Burrhus, l'infelice amico di Seneca (Gentis Burrhorum notitia,
Argentorati 1660). In età comunale avevano contato qualcosa. Esautorati
politicamente, si erano avviati con onore verso le professioni liberali. Il
padre, Branda, era un medico di fama, dalle quasi divine (correva voce) capacità
diagnostiche; lo zio Cesare era dottore collegiato e professore primario di
leggi nell'università di Pavia.
Fu probabilmente il padre a destare, e precocissimamente, in lui l'interesse per
gli "arcana naturae". Certo è che seguì molto da vicino le ricerche
alchimistiche del figlio, appassionandosene egli pure. Finché il giovane,
accortosi "qu'il étoit porté par un desir d'avarice" smise di metterlo a parte
dei suoi segreti (B. de Monconys, Voyages, Paris 1695, II B, p. 292). Non
corrisponde invece a verità la notizia divulgata da L. Fumi (L'Inquisizione
romana e la storia di Milano, in Arch. stor. lombardo, s. 4, XIII [1910], pp.
402 s.) che Branda avesse preceduto il figlio sulla strada dell'eresia.
Per compiere l'educazione dei figlioli Branda, che non mancava di mezzi, scelse
uno dei maggiori istituti educativi dell'Italia del tempo: il Seminario romano.
Creato da Pio IV il 10 febbraio 1565 e affidato ai gesuiti, era stato una della
primissime fondazioni destinate ad attuare le norme del concilio tridentino in
materia di educazione del clero. Non preparava però soltanto futuri sacerdoti:
se da esso uscirono molti cardinali e perfino un papa, Innocenzo XII, assai più
numerosi furono gli uomini d'arme che, in qualità di convittori, vi ricevettero
la prima formazione. Rigorosamente classista il criterio di ammissione: i
giovani dovevano essere "figli di persone nobili, e delle prime case non solo
d'Italia, ma di tutta la cristianità". I Borri furono ammessi in questa società
cosmopolitica di poco più che un centinaio di giovani aristocratici, i quali,
assistiti giorno e notte dai buoni padri, per uno spazio di almeno otto anni
venivano educati a un tempo nella pietà e nelle lettere. Nel Seminario però non
si tenevano corsi: vi si ripetevano, sotto la guida di assistenti, le lezioni
ascoltate nel Collegio Romano.
Negli anni '40 del sec. XVII, quando giunsero a Roma i due B., si avvicendavano
sulle sue cattedre alcune delle personalità più in vista della compagnia: Sforza
Pallavicino, Théophile Raynaud,
Athanasius Kircher. Nel triennio 1646-1649 ne fu rettore Nicola Zucchi. È
difficile precisare quanto la formazione culturale - scientifica e religiosa -
del B. debba a questi uomini, quanto alla specifica pietà gesuitica. Si può
pensare che la devozione della Vergine, promossa in tutti i modi dai padri
nell'ambiente del Collegio, fosse all'origine della mariolatria borriana. Ma è
bene ricordare che, diciamo così, col veleno essi avevano anche fornito
l'antidoto. Proprio uno di quei professori, il Raynaud, era tra i teologi del
tempo il più instancabile nel ricordare ai troppo zelanti assertori del
privilegio mariano che Maria era pur sempre una creatura e che le era di
conseguenza dovuto soltanto un culto di dulia. Quanto all'alchimia, si sa che il
Kircher, pur giudicando chimerica la ricerca del lapis philosophorum, non
riteneva impossibile la trasmutazione dei metalli.
È un fatto, a ogni modo, che i maestri gesuitici avevano caro il B. e lasciavano
che desse libero corso alle sue inquietudini intellettuali. Lo ascoltavano anzi
compiaciuti: "motivava dubii di fede - così lo ricordava il p. Evangelista
Matutino, che era stato suo tutore - e scioglievane a suo capriccio le
difficoltà con tale incanto di errore, e di franchezza, che appariva egli nel
medesimo tempo e riprensibile, e giocondo, con quel gran misto d'Idee..." (D.
Bernino, Hist. di tutte l'heresie, IV, Roma 1709, p. 641). Gioco pericoloso. Ma
era difficile sfuggire al fascino di quell'adolescente impetuoso, alla forza
magnetica dei suoi splendidi occhi verdi "dagli occhi, come da due stelle,
brillavagli fuori uno Spirito quasi superiore all'humano"). Ancor più dei
maestri, ne subivano l'ascendente i condiscepoli. Quei pochi di cui sappiamo il
nome rimasero tutta la vita suoi amici ed estimatori grandissimi: Paolo Negri,
ministro piemontese a Roma, e il conte Bartolomeo Canali, che a Temi nel 1670
accorse a visitare e festeggiare in compagnia di altri gentiluomini del luogo il
prigioniero dell'Inquisizione. L'uno e l'altro erano stati di quei trentuno che
nel marzo 1649 avevano solidarizzato vivamente con lui ribellatosi ai modi
autoritari del rettore del collegio, al punto di occupare per tre giorni
l'istituto. A liberare i gesuiti sequestrati dagli studenti avevano dovuto
accorrere, chiamati dalla casa professa, gli sbirri armati. Il rettore era stato
rimosso. Ma naturalmente colui che aveva dato l'occasione a quell'esplosione di
collera studentesca fu cacciato di collegio.
Il B. continuò per suo conto gli studi intrapresi: alchimia, medicina, un po' di
tutto. Non mancavano nell'ambiente romano gli amici e i protettori. Tra questi,
il cav. Cassiano Dal Pozzo, che già da tempo per incarico del padre sorvegliava
i suoi progressi, e Paolo II Giordano Orsini, duca di Bracciano.
Per interessamento forse di qualcuno dei suoi amici romani il B. trovò lavoro in
una legazione secondaria: nel 1653 era segretario del marchese Mirogli,
residente del conte del Tirolo, l'arciduca Ferdinando Carlo. Di lì a poco si
produsse l'evento decisivo della sua esistenza. Coinvolto in una rissa e
costretto a cercare asilo in S. Maria Maggiore, fu visitato da una visione
celeste. Preceduti da un terremoto, s. Paolo e l'arcangelo Michele si mostrarono
a lui e gli annunziarono grandi turbamenti nella Chiesa: "multa dissonantia
venient, omnia tamen ad maiorem Dei gloriam". Era il 23 luglio 1654.
Ormai il B. si crederà investito dall'alto di una grande missione: risanare la
cristianità corrotta ed estendere a tutta la terra il regno di Dio. Sarà il
difensore del Cristo, il "Prochristus", come a lui piaceva chiamarsi. Cercherà
discepoli capaci di dar vita a una comunità perfetta e con l'aiuto dei quali
sterminare i peccatori, all'occorrenza il pontefice stesso.
Stragi ingenti dovevano essere compiute, anche in Roma; e per la città dovevano
essere portate in giro le teste mozze dei giustiziati. Unica concessione ai
peccatori: prima dell'esecuzione sarebbe stato loro permesso l'uso dei
sacramenti. Non era che il primo passo: l'obiettivo finale era la riduzione di
tutta la terra sotto il segno del Cristo. Sapeva ormai vicinissimo - così
confidò a qualche intimo - il tempo "ut unum in orbe fieret ovile, cuius caput
futurus sit Pontifex". Il Calvari si entusiasmò per questo messaggio irenico:
"La formazione di un solo ovile con un sol Pastore, l'unione dei fedeli cogli
infedeli, la venuta del Regno di Dio sulla terra, ecc.... il sogno audace di
questo moderno eresiarca". Aveva però dimenticato un particolare: l'unificazione
religiosa del genere umano doveva farsi, secondo il B., con la forza delle armi.
Chi avesse resistito alla conversione doveva essere soppresso: "omnes delendos
vocationi refractarios". Il mondo avrebbe in seguito goduto mille anni di pace
perfetta. Annientare il mondo peccatore: era stato ben il programma degli
anabattisti di Münster, di Jan Matthijs e Jan van Leiden. Se ne avvidero i
contemporanei: Constantijn Huygens, il Bernino, l'Arnold.
L'unione di fedeli e infedeli avrebbe segnato la maturità dei tempi alla
rivelazione delle uguali prerogative di Maria e del Cristo. Figlia unigenita di
Dio "ante conceptionem verbi", concepita "sine hominis semine" nel ventre di S.
Anna, la deipara non diversamente da Gesù era un'incarnazione dello Spirito
Santo: una dea. Le parole della salutazione angelica "gratia plena" dovevano
dunque intendersi "spiritu sancto plena"; e al canone della messa andava
aggiunta la formula: "uninspirata filia". Nell'eucarestia non era contenuto e
adorato solo il corpo del Cristo, ma anche quello della Madre. Il Misson ripensò
a un'antica eresia: quella delle colliridiane del IV secolo (E.-M. Misson,
Nouveau voyage d'Italie, La Haye 1702, II, p. 138). In realtà, nei dogmi
borriani si ritrovano, spinte al limite, certe tendenze (si pensi al "voto
sanguinario") della devozione popolare dell'epoca (H. Cherot, Louis XIV et
l'Immaculée Conception en 1657, in Etudes, XCVIII [1904], pp. 803 s.), nonché
gli echi delle controversie teologiche più vive in quegli anni. È del 1653 la
Theologia mariana di Cristoval de Vega, dov'è affermata la permanenza di un
elemento di Maria nell'eucarestia; è di dieci anni dopo l'operetta del
francescano Zephirin de Someire dov'è sostenuto "Virginis carnem, sanguinem, &
lac in sacramento altaris adesse" (La devotion à la Mère de Dieu dans le très-saint
sacrement de l'autel, Narbonne 1663; Benedetto XIV, De servorum Dei
beatificatione, Romae 1749, IV, parte II, c. XXXI, 32); è dell'8 dic. 1661 la
prima definizione formale del privilegio mariano. Così pure sono risposte
borriane a problemi dell'epoca le sue opinioni sulla grazia ("Deum obligatum
esse ex Iustitia non ex misericordia ad auxilia gratiae iustis concedenda") o
sulla trasmissione di colpevolezza ("infantes in peccato generatos maculari in
anima non originali solum culpa, sed etiam actuali"). Il B., come si vede,
traeva tutte le conseguenze dal traducianismo dei Padri ("Filios natos
parentibus bonis faciliores esse ad virtutem quam natos malis").
Ai suoi "nationalistae Evangelici" (ma i contemporanei li chiamano anche "ragionevoli"
o "apostolici") egli impose sei voti: unione fraterna, segreto inviolabile anche
con i confessori, povertà, obbedienza al Cristo e agli angeli, devozione totale
sino al martirio alla causa di Dio. Il ritorno alla semplicità evangelica
sarebbe stato reso visibile dopo la grande epurazione nell'abito stesso della
nuova "religione": una pelle di candido agnello l'estate, due l'inverno; un
cappuccio con una croce e un collare ferreo con la scritta: "Ovis mancipium
pastoris agni". Gli utensili e i vasi sacri sarebbero stati di terra o di paglia.
Motivi pauperistici ben adatti a far presa sulla mentalità popolare. Una parte
di primo piano il B. riservava naturalmente a se stesso: era lui l'ispirato che
aveva ricevuto il dono delle rivelazioni celesti, in commercio assiduo con gli
angeli. Tale sapienza infondeva nei discepoli (ch'egli voleva "rudes" come gli
apostoli, "ut opera eorum opera divina clarius haberentur") con la sola
imposizione delle mani.
Il testo della sentenza presenta la "conversione" del B. come improvvisa e - non
occorre dirlo - finta. Per quanto ne sappiamo, egli era stato invece tormentato
sin dai suoi giovani anni da dubbi e preoccupazioni religiose. Coloro che lo
conobbero un po' intimamente ricevettero tutti l'impressione di un'intensa vita
interiore. Dopo aver discorso a lungo con quest'uomo che la voce pubblica
presentava come un ateo e un impostore, il consigliere di Stato Johann Monrath
fu costretto a riconoscere ch'egli era acceso da una grande devozione a Dio e da
una grande passione per la vita virtuosa. Altrettanto ammise un ministro
luterano di Danzica, Andrea Kuehner. Allo stesso Bernino, che s'incontrò due
volte con lui al tempo della sua carcerazione, fece l'impressione "d'ingannato,
più tosto che d'ingannatore". Le ricerche alchimistiche, nelle quali andò sempre
più inoltrandosi, avevano senza dubbio esaltato le sue tendenze mistiche.
Soltanto chi avesse raggiunto un'assoluta purezza interiore sarebbe stato capace
della "grande opera". Lo studio non bastava; poteva essere anzi sviante. Al
Monconys disse "qu'on ne pouvoit être bon Philosophe sans etre bon Chrétien; &
qu'on ne consideroit pas que les Prophetes, & Apotres avoient tous eu de cette
science par la voye de la Religion, & qu'on quittoit ce bon chemin pour en
prendre un autre de l'étude, qui n'y arrivoit pas". Ed era, senza dubbio,
sincero.
Cominciò a dar prova dei doni soprannaturali ricevuti durante gli ottanta giorni
che durò il conclave dal quale uscì eletto il 7 apr. 1655 Alessandro VII Chigi,
componendo settimanalmente gli Avvisi di Roma per la corte d'Innsbruck.
Compromesso da quell'attività politica, avvenuta l'elezione del nuovo pontefice,
avrebbe precipitosamente abbandonato Roma. In realtà, vi si trattenne ancora un
anno buono, fintanto che da Napoli non giunsero i primi segni della peste. Al
Sorbière, che aveva raccolto la voce calunniosa che egli si fosse trovato a
Napoli durante la pestilenza e che ne avesse profittato per saccheggiare le
abitazioni abbandonate il B. rispose sdegnato di non aver mai visto questa città
(Ep. ad Th. Bartholinum, p. 58).
Tornato a Milano, trovò una Lombardia in pieno fermento religioso. I tribunali
dell'Inquisizione avevano il loro da fare a reprimere le manifestazioni di
quietismo, che andavano serpeggiando un po' dovunque: nelle valli bresciane e
bergamasche, nella stessa Milano. Particolarmente profonda l'influenza di
Giacomo Casolo, un laico analfabeta dalla santissima vita, e su di lui e sui
suoi collaboratori si era abbattuta la repressione ecclesiastica. Nel giugno del
1656 il Casolo era morto nelle carceri dell'Inquisizione di Brescia: nell'aprile
del 1657 l'arciprete M. A. Recaldini era stato relegato in perpetuo a Udine.
Benché non vi fossero sostanziali punti di contatto tra la pratica dell'orazione
mentale e le sue idee religiose, il fatto è che il B. fece i suoi primi
proseliti proprio nell'ambiente "pelagino" (i seguaci del Casolo solevano
riunirsi nell'oratorio filippino di S. Pelagia). Egli stesso sembra che nutrisse
grande devozione verso il Casolo: "in conventu huius novae religionis - si legge
nella sentenza - collocatum iri deinde ossa Iacobi Philippi de Sancta Pelagia,
utpote qui praecursor fuerit huius regni altissimi" (Tractatus et codic. publici
ad Historiae Chr. A. Thvldeni Partem Quartam pertin., Coloniae Agrippinae 1663,
p. 309). E in una cronaca anonima della cerimonia romana dell'abiura: "si nomina
Giacomo Filippo, che era dai seguaci del Borri stimato precursore del Regno di
Dio... et che Giacomo Filippo hora si trova in Paradiso sopra s. Ignazio" (Magnocavallo,
1902, p. 383).
II B. non limitò la sua azione a Milano, ma la estese largamente in tutto il
territorio lombardo. Dei suoi discepoli, B. Gabrieli era chierico regolare di
Paruzano, diocesi di Novara; C. Mangino era chierico di Voghera; A. Brusati era
sacerdote di Assola. Di Milano erano gli altri: L. F. Pontio, sacerdote secolare;
A. Bonardo, chierico; P. Schilizino, cercante per il monastero di S. Pelagia; F.
Pirola. Su otto di cui sappiamo il nome (i condannati furono in tutto dieci) uno
soltanto dunque - il Pirola - era laico. È evidente che il B. reclutava di
preferenza nel basso clero. Ebbe anche addentellati in qualche monastero di
monache. Al Monconys raccomandò di visitare a Pavia la celebre cappuccina suor
Maria Domitilla Galluzzi del monastero del S. Sacramento.
L'attività della conventicola non sfuggì al vigilante inquisitore di Milano. Nel
1658 due degli "evangelici" borriani, arrestati, fecero il suo nome. A suo
carico venne aperta inoltre nel 1659 in Roma un'indagine sotto accusa di
veneficio: si cercava in tutti i modi di perderlo, di comprometterlo. Il
sospetto di veneficio si aggiunse a quello, più grave, di eresia. Il 20 marzo
1659 gli fu intimato di comparire in giudizio entro 90 giorni. Il B. (che aveva
già abiurato a Innsbruck) non si presentò. Il 2 ott. 1660 fu citato ad ascoltare
la sentenza. Fu letta, lui contumace, il 2 genn. 1661 nella chiesa della
Minerva: il rogo. Venne arso in effigie, il giorno seguente in Campo de' Fiori.
Dei suoi seguaci, quattro abiurarono a Roma; gli altri sei di lì a poco, il 26
marzo, a Milano. Uno di questi ultimi, il Mangino, negò e con alta voce ciò che
aveva di già confessato" (Memorie storiche milanesi di Marco Cremosano dall'anno
1642 all'anno 1691, a cura di G. Porro Lambertenghi, in Arch. stor. lomb., VII
[1880], pp. 293 s.). Fu imbavagliato, ammanettato, e trascinato via per ordine
dell'inquisitore. Le pene variarono tra il carcere perpetuo e la detenzione di
qualche anno. Prontamente, l'inquisitore di Milano cercò d'impadronirsi della
parte toccata al B. dell'eredità paterna (Branda era deceduto il 18 agosto del
1660). Ma le autorità civili agirono con fermezza ed assicurarono il passaggio
dell'intero patrimonio al fratello Cesare, dottor collegiato.
Il B. intanto era riparato a Innsbruck, presso Ferdinando Carlo. Invano Roma si
adoperò per la sua estradizione: l'arciduca e sua moglie lo avevano troppo caro.
Il B. dirà di aver eseguito in loro presenza delle "proiezioni", di aver cioè
trasmutato i metalli in oro; in realtà aveva ottenuto soltanto un po' di olio di
talco e di "oro potabile" per l'arciduchessa (Monconys, II B., pp. 293, 297 s.;
III, p. 377). Ricorderà con riconoscenza quel principe generoso. Difficile
tuttavia resistere alla lunga alle insistenze del nunzio. Con i mezzi fornitigli
dall'arciduca il B. si trasferì, alla metà del 1659, a Strasburgo, mettendosi
sotto la protezione del Senato di quella libera città. Lo precedeva la fama di
uomo portentoso, che ormai correva largamente in Europa, dalle corti
principesche ai più remoti villaggi. In un borgo sulla strada di Augsburg un
ebreo raccontava di lui cose meravigliose: "Burium ex quatuor qui sint in Europa
Cabalistis maximum dicebat; atque maiora ractabat, quae alii de ipso vel
scribunt, vel loquuntur". Il residente di Francia a Strasburgo, Giovanni
Frischmann, pubblicò per il capodanno del 1660 un Sacrum in suo onore dove egli
era poco meno che "deificato". Il "mito" borriano è ormai, a questa data,
cristallizzato definitivamente. A Strasburgo il B. riuscì in una difficile
operazione della cataratta servendosi dello strumentario messo a punto per lui a
Innsbruck dal chirurgo Rocco Mattioli.
Trovò estimatori tra i medici pratici, qual era Giovanni Kueffer, archiatra di
molti principi tedeschi; ma incontrò fierissime ostilità nel mondo universitario.
Il più in vista di questi professori, Melchior Sebisch jr., lo giudicò
senz'altro un ciarlatano. Gioirono quando di lì a poco il Senato intimò a
quell'eretico sospetto di allontanarsi dalla città. Holstenius, che da Roma
seguiva i movimenti del pessimo soggetto, applaudì al provvedimento.
Da Strasburgo volse i passi in terra tedesca: a Francoforte prima, poi a Dresda
(dove si dice che l'elettore gli donasse oltre 3.000 talleri); di qui a Lipsia.
Soggiorni brevi o brevissimi. Finalmente nel dicembre del 1660 mise piede in
Olanda. Vi rimarrà sei anni e vi godrà una certa tranquillità (se sarà
inquietato, non sarà per causa di religione) e una discreta agiatezza. Possedeva
una casa del valore di 15.000 scudi in un bel quartiere di Amsterdam; vestiva
alla francese; offriva di tanto in tanto "quelque collation aux Dames";
dispensava larghe elemosine ai poveri della città. Ma non era ricchissimo come
si diceva. La testimonianza non è sospetta, essendo del Sorbière (S. Sorbière,
Voyage d'Angleterre, Paris 1664, p. 158). Qual era la fonte di quella, sia pure
non ingentissima, ricchezza, visto che il B. esercitava la medicina senza
mercede? Il giovane Ole Borch fece propria l'opinione dei più creduli: "In
metallicis credibile est illum sive sua sive (ut sunt qui existiment) aliena
dexteritate eo esse provectum, ut de paupertate securus triumphet" (Th.
Bartholinus, Epist. medicinalium Cent. III, Hagae Com. 1740, p. 410). II Ménage,
per parte sua, era convinto "qu'il avoit un secret pour faire les perles et que
c'étoit là son revenu". (Menagiana, Paris 1729, III, p. 188). Molto più
credibile è che il B. l'avesse formata con il ricavato della vendita dei suoi
medicamenti e, naturalmente, con i doni dei suoi protettori e dei suoi pazienti.
Di qui il sospetto che se la fosse procurata principalmente raggirando vecchi
incapaci. In effetti le apparenze erano in certi casi contro di lui. Uomini
creduti ricchissimi che erano stati nei loro ultimi giorni in commercio con lui
si rivelarono dopo la morte possessori di ben modeste fortune: G. Demmer,
direttore della Compagnia delle Indie e condirettore della colonia della Guiana;
P. Messert, celebre stampatore di carte da gioco. Assolto nel 1662 da ogni
sospetto nella causa intentatagli dagli eredi Demmer, fu invece condannato nel
genn. 1665 in quella mossagli dagli eredi Messert: a pagare 5.000 fiorini dietro
giuramento di non aver ricevuto la somma di 100.000 fiorini o a pagare la somma
intera qualora si fosse rifiutato di discolparsi. Segno che, tutto sommato, le
prove a suo carico non erano schiaccianti.Ad Amsterdam la sua fama di medico
andava rapidamente oscurando quella degli altri. Poco dopo il suo arrivo vi
aveva ottenuto due guarigioni straordinarie; e aveva in seguito continuato a
mostrarsi all'altezza, di quei primi successi. Da Leida il 31 marzo 1661 il
Borch ne scrive al Bartholin nei termini più entusiastici. Gli incontri che ha
con lui ad Amsterdarn a partire dal 23 maggio successivo lo confermano nella sua
grande opinione: "Sagax ille ingenium, prudentia Itala, locuples crumena". Nei
consulti cita spessissimo Ippocrate, ma si serve anche di rimedi galenici; solo
raramente di chimici. Ha attorno a sé discepoli e assistenti, che visitano per
lui i pazienti ("aegros... per vicarium plerumque & gratis sanat"). Uno di
costoro, giunto di lì a poco a Copenaghen, faceva molto sperare di sé. Numerosi
coloro che vogliono mettersi alla sua scuola, a cominciare dal Borch, che ne
resta però un po' deluso: "Nemo tamen facile speret se in adyta secretorum elus
penetraturum, ita tecte, circumspecte, occulteque loquitur, ut Oedipo opus est
coniectore" (Bartholinus, p. 410). Ancor più deluso il giovane Kerckring: "laetior
aliquando, numquam doctior ab eo recessi" (T. Kerkringius, Spicilegium
anatomicum, Amstel. 1670, p. 200). La considerazione pubblica crebbe allorché
nel 1662 cominciò a sperimentare sopra animali la sua tecnica per la
rigenerazione degli umori oculari.
Ormai il B. è divenuto un personaggio socialmente cospicuo. - L'aristocrazia gli
apre volentieri le sue case: i Brederode, gli Huygens (Constantia - "Tante
Dewill" - ne era infatuata). Due gentiluomini sul punto di duellare sono
riconciliati da lui (C. Huygens, Oeuvres, IV, La Haye 1891, pp. 350 s., 356).
Posa per uno dei più famosi autori di ritratti: Jürgen Ovens. La visita a questo
"libero filosofo" è, per i viaggiatori inglesi soprattutto, un rito d'obbligo.
Verso la metà del 1661 è Roberto Southwell, reduce dal grand Tour, a rendergli
omaggio. Con soddisfazione reciproca i due si scambiano segreti chimici (Ep. ad
Bartholinum, pp. 38 s.)Di lì a poco, nel luglio, l'Oldenburg. Il futuro
segretario della Royal Society non si scandalizza affatto di trovarlo invaghito
della pietra filosofale. Quella conversazione di qualche ora gli dà anzi (com'egli
stesso gli dirà nel suo italiano) un "gusto così penetrante" che l'impressione
gliene rimase "fresca nel cuore" ancora per anni (H. Oldenburg, Corresp.,
Madison, Wisc., 1965, II, p. 416).Ne riparte con una lettera del "grand Lulliste"
al Digby unita a un campione del suo legno incombustibile. Una comunicazione del
B. sull'argomento sarà letta alla Società nel meeting del 28 agosto (Th. Birch,
The Hist. of the R. Society, London 1756, I, p. 42).I "virtuosi" d'Inghilterra
avrebbero giudicato senz'altro quell'impresa impossibile - gli assicurerà - "ni
artem tuam penitius et specialius cognoverint" (Oldenburg, I, p. 417). E gli
chiederà in tutta confidenza la sua opinione "de liquore illo mirabili
Alkahest": se il modo migliore di prepararlo fosse quello di Paracelso o quello
di van Helmont.
Furono proprio l'Oldenburg e il Digby a presentargli due anni dopo il "virtuoso
e cosmopolita" Monconys. Sarà il suo più attento e paziente intervistatore. Tra
il 4 e il 26 agosto avrà ben nove lunghi colloqui con lui, sia all'Aja in
compagnia di Constantijn Huygens, sia ad Amsterdam. Voleva strappargli a ogni
costo il segreto di fabbricazione della pietra filosofale, fino a riuscire
seccante. Tutto quel che il B. seppe dirgli fu "que la pierre se devoit faire en
un instant, si elle étoit faisable, repetant plusieurs fois, si elle étoit
faisable". Già gli aveva parlato del "centre de chaque chose, qui n'étoit
pourtant qu'un & unique; qu'à moins de pouvoir concevoir ce que c'est qu'unité,
on ne peut étre Philosophe, & pour me faire entendre, comme ce centre qui est en
chaque chose n'est pourtant qu'une seule unité, il me fit la comparaison du
centre d'un petit cercle, qui sera le même d'une infinité d'autres, qu'on feroit
par lui, mais dont les diamètres seroient divers" (Monconys, II, p. 290). Da
buon alchimista voleva installarsi nel cuore delle cose. In uno dei suoi ultimi
scritti citerà Anassagora: "Omnia in uno, in omnibus unum adesse" (De
degeneratione vini..., 1697).
Il B., per parte sua, cercava, in tutti i modi, di riuscir gradito ai suoi amici
inglesi. Al primo manifestarsi della peste a Londra, nell'agosto 1665, inviò "de
son propre mouvement" all'Oldenburg un suo rimedio antipestilenziale, buono -
così gli assicurava - tanto per prevenire quanto per guarire, già sperimentato
l'anno prima ad Amsterdam e a Emden. Né il Boyle né il Moray, per quanti
tentativi facessero, riuscirono a scoprirne la composizione. Da parte inglese
non gli venne mai meno la stima e l'interessamento. Hooke si protestava suo
amico (si rammaricherà del suo arresto, che lo allontanava dalla "philosophy").
Lo stesso Newton raccomandava vivamente all'amico Aston nel maggio 1669 di
ricercare in Olanda quel personaggio che si credeva depositario di gran segreti
(Corresp., Cambridge 1959, I, p. 11; II, p. 304).
Ma il B. aveva da circa tre anni abbandonato il suo rifugio olandese. Già al
Monconys aveva confidato, in preda a grande ansietà, di non sentirvisi sicuro.
Al principio del 1667 lo troviamo a Wolfenbüttel, ospite del duca Rodolfo
Augusto di Brunswick. Di qui passa ad Amburgo, dove rimane due mesi al servizio
di Cristina (Diarium Europaeum, nov. 1667, p. 665). Incerto del futuro, pensa
all'Inghilterra. Attraverso il residente inglese invia un dono sontuoso a Carlo
II, singolarissimamente interessato - si sa - alle ricerche chimiche. Nel
settembre-ottobre viene invece chiamato a Copenaghen da Federico III.
Vi fu accolto generosamente. A Rosenborghaube, nei giardini del re, ebbe modo
d'impiantare un laboratorio ch'era la meraviglia di quanti lo visitavano. Vi
trovò a festeggiarlo vecchi e nuovi amici: il Borch, appena ritornato dal suo
viaggio italiano e salito sulla cattedra di chimica e botanica nell'università
di Copenaghen, felice di riavere accanto a sé quell'"inclutus Naturae
thesaurarius", quel "medicorum, choryphaeus", quell'"Hermes saeculi", quella
gloria della scienza europea ("phenicem Naturae et gloriam non tantum Hesperiae
suae, sed Europae"); il Bartholin, che finalmente poteva avvicinare quell'uomo
dottissimo ("multiscius") e profittare della sua "Naturae inexausta scientia".
La sua musa ne fu eccitata: "Hospes adest magnus, patrii gaudete penates..." (Carmina,
p. 91). Il B. ricambiò tutti quegli applausi poetici con un epigramma di quattro
versi (Ep. ad Bartholinum, p. 68), che furono probabilmente gli unici usciti
dalla sua penna (non è certamente suo il sonetto per le pubbliche difese di
filosofia [1684] del Vallisnieri che si legge in B. Brunelli, Figurine e costumi
nella corrisp. di un medico del '700, Milano 1938, p. 202).
Il Bartholin, in particolare, non si stancava d'interrogarlo. Il Magliabechi si
stupiva col Panciatichi che fosse così candido uomo: "Che 'l Borri sia tristo da
dar ad intendere cose stranissime, non mi apporta meraviglia alcuna, ma mi
arrecca bene stupore il vedere, che lo stesso Bartolini gliene crede di quelle,
che non si darebbe a bere a Calandrino" (Racc. di prose fiorentine, V, Venezia
1735, parte III, 1, p. 107).
Costretto a restarsene nella sua villa di Hagested, continuò per lettera la
conversazione interrotta. Per volontà del sovrano quel commercio epistolare,
durato dal 10 marzo 1668 al 14 febbr. 1669, venne subito mandato alle stampe per
le cure dello stesso Bartholin. Le tre riviste scientifiche dell'epoca ne
riferirono prontamente con parole di lode (Journ. des Sçavans, 2 sett. 1669, ed.
di Amsterdam, II, pp. 540-544; Giorn. de' lett., 27 nov. 1669, pp. 130-132;
Phil. Trans., n. 64, ott. 1670, pp. 2081-2082). Ma già avevano cominciato a
farsi sentire le voci degli oppositori: primo fra tutti il celebre autore della
Chirurgia infusoria, J. D. Major (Consideratio physiologica occurrentium
quorundam in nuper editis epist. duabus dn. F. J. B., Kilonii 1669). La sua
disistima del B. era totale: "auri & gemmarum avidissimus vir" - dirà anni più
tardi -, era bravo solo a mungere le borse dei ricchi.
Argomento della prima lettera era la questione, fino allora insoluta, se la
sostanza cerebrale fosse o no "pingue". Il B. ne confermò l'alta componente
lipidica adducendo a prova il fatto che egli ne aveva ricavato una quantità
considerevole di olio combustibile dotato altresì di virtù terapeutiche (analgesico
per uso locale nei podagrosi). Quanto all'anima razionale, essa aveva sede in
certo liquido sottilissimo e di odor piacevole che si formava nel cervello e al
cui "temperamento" piuttosto che alla costituzione cerebrale si doveva la
sottigliezza dello spirito. Una personale teoria sulla differenziazione
embriogenetica degli organi reggeva tutto il discorso. Ciascuno di essi sarebbe
formato "ex motti vivificante" impresso al duplice seme dei genitori da una "virtus
immortalis", che era "quasi sigillum Dei" manifestazione particolare del moto
rapidissimo e sottilissimo governante l'universo.
La seconda riguardava la possibilità di rigenerare, oltre l'umor vitreo e
l'acqueo dell'occhio (cosa ormai assodata), l'umor cristallino. Il problema, al
centro di molti tentativi dei chirurghi dell'epoca, sembrava essere stato
felicemente avviato a soluzione dal B. con le sue acclamatissime operazioni.
Svuotati completamente i bulbi degli umori, il B. vi iniettava un liquido
bianchiccio ma trasparente da lui preparato. Si trattava - spiegava ora il B. -
di acqua di chelidonia e di un certo flemma di vitriolo di Marte. Di lì a una
settimana l'animale riacquistava la sensibilità agli stimoli luminosi. In
appendice descriveva accuratamente lo strumentario di cui era solito servirsi.
La lettera ravvivò l'interesse per quegli esperimenti. Il B. stesso lo rifece in
presenza del Borch e del Bartholin, che ormai non ebbe più dubbi: "Ex quibus
luce meridiana clarius apparet - comunicò il 30 settembre al collega Ph. J.
Sachs - possibile esse arte restitui posse humorem quoque cristallinum" (Miscell.
curiosa, I, Lipsiae 1670, p. 38). L'esperimento venne di lì a poco ripetuto in
presenza del sovrano. Questa volta le manualità dell'intervento furono praticate
dal chirurgo del re, Henrik Skriver. Più accorto degli altri, in quest'ultimo
sorse il dubbio che la restituzione degli umori e della vista fosse opera della
stessa natura. Ripeté l'esperimento "in bianco" e ottenne risultati altrettanto
eccellenti. Il liquido del B. era evidentemente superfluo (Acta medica et
philos. an. 1671 & 1672, Hafniae 1673, pp. 264-267). Il B. (ormai partito da
Copenaghen) era stato "smascherato". Uomo dei tempi nuovi, lo Skriver aveva
fatto una scoperta memorabile. Al B. restava al massimo il merito di averla
provocata.
Recentemente però il Belloni ha voluto attribuirgli quello di aver istituito una
verifica sperimentale della teoria cartesiana della visione. In breve: il B. si
sarebbe reso conto "che il cristallino non è indispensabile alla visione, e non
costituisce l'organo centrale di questo processo, come allora fermamente si
credeva". L'animale privato del cristallino riacquistava però imperfettamente la
percezione dello stimolo luminoso. L'artificio borriano non si applicava quindi
all'uomo; e infatti il B. si guardò bene dal farlo. Egli avrebbe taciuto sulla
vera portata delle proprie scoperte soltanto per meglio sfruttarle a fini
personali. Un uomo geniale, dunque; ma ciarlatano.
Più semplice è però supporre che il B. credesse quello che allora tutti
credevano; e che fosse sinceramente convinto di aver trovato il modo di
rigenerare l'umor cristallino a condizione che il nervo ottico fosse illeso.
Constatatane la lesione nei due soggetti umani infortunati che fu invitato a
curare con la propria acqua, giudicò inutile l'intervento. In altri casi però, a
sentir lui, era intervenuto felicemente: "brutorum hominumque oculos ad
pristinum statum... restitui" (Ep. ad Bartholinum, p. 36). Il sospetto di
ciarlatanismo avrebbe miglior fondamento se avessimo prove certe del suo
cartesianismo. Disgraziatamente, i testi "cartesiani" del B. sono dei falsi
belli e buoni. L'unica volta che il B. accennò a Cartesio non diede a vedere
alcuna stima di lui: "Il n'estime ni M. des-Cartes, ni M. Vossius, mais un peu
M. Hudde..." (Monconys, II, pp. 350 s.).
Nel settembre 1669 il B. trasportò il proprio laboratorio da Rosenborghaube a
Christianshavn. Ma già la sua popolarità di medico onnipotente cominciava a
essere intaccata. Non si sentiva più sicuro quella corte: "hic lubricum est"
confidava all'Hanisius. La malattia e la morte del re, nel febbraio 1670, lo
indussero ad abbandonarla. Si era, tra l'altro, inimicato il vecchio Simon
Paulli e gli altri medici di corte, sconsigliando - in contrasto con loro - il
salasso dell'ultrasessantenne sovrano (Hyppocrates chymicus, p. 155). Cristiano
V graziosamente gli concesse il congedo, pur desiderando continuare a servirsi
della sua opera (nel 1692 ricorrerà a lui per la cura di uno dei suoi figlioli
colpito da un malore rimasto misterioso agli altri medici). Esitante tra Svezia
e Turchia, il B. si risolse finalmente per quest'ultima destinazione: un suo
vecchio progetto. Degli anni spesi a Copenaghen accanto ai fornelli rimase,
unico risultato tangibile, un granello d'oro "alchimico", che ancora figura tra
i cimeli reali del castello di Rosenborg.
Con il benservito del sovrano danese, il B. se ne passava dunque nell'aprile
1670 nell'Ungheria superiore diretto a Costantinopoli, quando fu fermato da una
pattuglia: si cercavano i complici di una congiura contro la vita
dell'imperatore. Credutosi scoperto, il B. prese un partito disperato: sparò un
colpo di pistola sul capitano. Ma lo mancò. Vistosi perduto, prese il veleno. Lo
indussero a prendere il contravveleno, facendogli sperare della clemenza cesarea.
Sotto buona scorta fu condotto quindi a Vienna. Vi giunse il 4 maggio.
Il nunzio Pignatelli dispiegò subito tutto il suo zelo: innanzi tutto affinché
il prigioniero fosse ben custodito; quindi affinché fosse a lui consegnato.
Ottenne, ma "con grandissimi stenti", soddisfazione alla prima richiesta. Era
incredibile - confidava al segretario di Stato il 1º giugno - la protezione che
il B. godeva a corte anche dai "principali ministri": a tal segno che "intendevano
di lasciargli godere ogni libertà". Di metterlo quindi a disposizione del papa
non volevano eppure sentirne parlare. Per un motivo o per l'altro - "chi per
venirgli raccomandato da principi forestieri, e chi per proprio interesse o
allettato dalla speranza di poter ricavare da lui segreti di grandissima
importanza" - cercavano di tenerselo a Vienna. Leopoldo era, al solito, "dispostissimo":
erano i ministri, il principe di Lobkowitz soprattutto, a non volere. Le ragioni
addotte non erano che pretesti; in realtà, erano tutti illusi dal miraggio di
arricchire e di aver allungata la vita. Non per nulla lo avevano trasportato in
un quartiere "dove si trovano fornelli ed altre commodità". Ci volle
l'intervento personale del sovrano per superare tante opposizioni. Il
prigioniero venne finalmente consegnato al Pignatelli la sera del 20 giugno.
Scortato da una squadra di trenta soldati, fu avviato a Roma per la strada di
Graz e Lubiana. Due servitori fidati dovevano prendersi cura che egli giungesse
vivo nelle mani degli inquisitori. Compito delicatissimo, dato che il
prigioniero rifiutava ostinatamente cibo e bevanda. Con mille stenti, a causa
delle pessime strade e delle acque grosse trovate, il convoglio giunse
finalmente il 20 luglio a Lubiana; di qui a Trieste. A misura che andava
avvicinandosi a Roma, il B. si faceva sempre più tetro. A Fano, per fargli
toccar cibo, dovette accorrere il vicelegato mons. Bentivoglio con mille
lusinghe. A Terni, il desinare gli fuservito, già trinciato e su piatti
d'argento, dal governatore in persona. Tutta Terni accorse a visitarlo:
gentiluomini, dame, gesuiti. Con tutti fu compitissimo.
A Roma, contrariamente a quanto si aspettava, non fu mandato al rogo. Molti si
mossero in suo favore: il principe Borghese, lo stesso card. Borromeo.
Tutt'altro che incorruttibile, il card. Altieri fece riaprire il processo e lo
ammise a nuove difese. Molto giovò al B. il fatto di aver scritto di suo pugno,
mentre era fuori d'Italia, due lettere al tribunale, nelle quali si era umiliato
riconoscendo e confessando il suo errore, e domandando perdono "sebene - dice la
sentenza - volessi patteggiare circa del modo con cui saresti trattato". Altro
punto a suo merito: "tu non hai mantenuto e predicato i tuoi errori in quelle
parti, nelle quali hai dimorato, né meno hai predicato e discorso contro la Fede
Cattolica". Venne perciò assolto dalla scomunica maggiore e la pena del rogo gli
fu commutata in quella del carcere a vita. Pallido, canuto innanzi tempo,
moralmente abbattuto, secondo alcuni testimoni; intrepido, quasi baldanzoso e
punto pentito, secondo altri, il B. ascoltò nella chiesa della Minerva il 25
sett. 1672 la sentenza e fece la sua abiura.
A richiamare l'attenzione sulla sua persona sopravvenne nel 1675 la malattia del
duca d'Estrées. Clemente X concesse al B. di uscire dal carcere per visitare il
diplomatico francese nella sua residenza di palazzo Farnese. Moltissimi romani
accorsero a vederlo. Il 6 luglio il B. fu costretto a mostrarsi dalla loggia del
palazzo alla folla plaudente. Di lì a poco, il 20 luglio, anche il card. Nerli
ricorse alle arti del prigioniero. L'anno dopo, il 14 ag. 1676, il card. Orsini,
ma troppo tardi: il poveretto era già stato "abbrugiato dentro" dai medicamenti
somministratigli. La cosa si ripeté, sotto il pontificato di Innocenzo XI,
almeno altre due volte. Per i buoni uffici del duca d'Estrées fu concesso al
prigioniero - pare - di continuare con qualche agio le sue ricerche
alchimistiche (M. Borgatti, Guida generale delle mostre retrospettive di Castel
S. Angelo, Bergamo 1911, pp. 68-70) e di essere visitato (sono sue parole) da "tutti
quelli che volevano". Ma è assolutamente falso che egli potesse lasciare il
carcere quando gli piacesse andandosene in carrozza in giro per la città e che
avesse addirittura preso parte in qualità di attore a rappresentazioni teatrali
in qualche salotto. Nel 1694, del resto, questa libertà gli fu tolta da
Innocenzo XII, quel Pignatelli che se lo era fatto consegnare a Vienna.
Nel 1681 uscirono a Ginevra con la falsa data di Colonia due opere sotto il suo
nome, in realtà un'opera unica in due volumi: La chiave del gabinetto del cav.
Borri e le Istruzioni politiche al re di Danimarca. La prima era una raccolta di
dieci lettere inviate dal B. al tempo dei suoi vagabondaggi europei, un po'
dappertutto (a Roma, a Napoli, a Firenze, a Milano, a Torino, a Padova) a
destinatari sconosciuti (un principe e una principessa romani, un dottore di
Milano, un professore di Padova, ecc.) e che l'editore assicurava di essersi
procurate, "con stento", spendendo addirittura qualche somma. L'altro volumetto
era invece un'opera sistematica, che rivelava nel B. un buon discepolo dei
trattatisti italiani della ragion di Stato.
Ma a un esame un po' attento l'una e l'altra opera si rivelano dei falsi: le
prime due lettere della Chiave sono una versione del Comte de Gabalis di
Montfaucon de Villars, e l'ultima - una lunga lettera-trattato sull'anima dei
bruti - è una traduzione fedele di De l'âme des bêtes di A. Dilly, uscita a
Lione nel 1676. Quanto alle Istruzioni politiche, sono una spregiudicata
manipolazione dei Discorsi sopra C. Tacito di Scipione Ammirato. Autore del
falso era l'avventuriero libertineggiante Girolamo Lamberti Arconati.
Nel 1695 il B. si ammalò di febbre malarica. Conobbe il proprio male e chiese il
rimedio adatto: la corteccia di china, il cui uso si andava allora diffondendo
in Europa. Ancora una volta, il B. aveva dato prova d'intelligente empirismo. Ma
il farmaco richiesto non fu trovato a Roma o non fu cercato con sollecitudine.
Il 13 agosto cessò di vivere.
Come i maggiori scienziati del secolo, aveva egli pure cercato di decifrare il
gran libro della natura. Quello e quello solo - aveva detto al Monconys - era il
libro che si doveva studiare. Ma era rimasto nello spirito un uomo d'altri
tempi: in breve, dell'epoca prescientifica. Manipolatore segretissimo della
natura, ne aveva cercato non le leggi, ma le confidenze. E aveva atteso
fiducioso la luce dell'intuizione che installa, d'un balzo, nel cuore della
realtà. La nuova scienza sperimentale amerà la chiarezza e sarà soprattutto più
modesta nei suoi propositi. E vorrà essere per prima cosa affare degli uomini di
scienza, della comunità scientifica. Il B., quanto a lui, aveva preferito come
compagni delle proprie ricerche i principi: "Unam in eo notam limis adspicio -
aveva detto con ragione Jacob Holste -: contemnit viros quosvis doctos.
Principibus se immiscet aliisque illustribus personis quanivis rudibus".
Tuttavia i contemporanei non marcarono con la nettezza che ci si attenderebbe la
distanza che separava le sue dalle loro ricerche. Non tutti almeno: Huygens - il
cartesiano Huygens - sì; ma non, per esempio, Newton, non Hooke, non Oldenburg,
non in genere gli uomini della R. Society. Non si trattava - si badi - di un
equivoco: sapevano benissimo che cosa egli cercasse. Il fatto è che erano
posseduti dalle stesse ambizioni. La scienza dei fenomeni e delle leggi era un
ripiego; la speranza di aggredire la realtà nella sua essenza, di portarsi al
centro di tutte le trasformazioni, non li aveva ancora abbandonati. Troppo
facilmente si dimentica il rovescio mistico della "rivoluzione scientifica". La
curiosità che svegliò l'operare occulto del B. in alcuni dei maggiori autori di
questa rivoluzione vale a ricordarlo.
Opere Apocrife o erroneamente attribuitegli: Gentis Burrhorum notitia,
Argentorati 1660; La Chiave del Gabinetto del Cavagliere G. F. B., Colonia [Ginevra]
1681; Istruzioni politiche date al Re di Danimarca, ibid. 1681.
Opere Autentiche o presunte autentiche: Lettera di F. B. ad un suo amico
circa l'attione intitolata: La virtù coronata, Roma 1643; Iudicium... de lapide
in stomacho cervi reperto, Hanoviae 1662; Epistolae duae. I. De Cerebri ortu &
Usu medico, II. De Artificio oculorum homores restituendi. Ad Th. Bartholinum,
Hafniae 1669; Hyppocrates Chymicus seu Chymiae Hyppocraticae Specimina quinque a
FJ.B. recognita et... Olao Borrichio dedicata. Acc. brevis Quaestio de
circulatione sanguinis, Coloniae 1690; De virtutibus Balsami Catholici secundum
artem chymicam a propriis manibus F. I. B. elaborati, Romae 1694; De vini
degeneratione in acetum,& an sit calidum,vel frigidum decisio experimentalis, in
Galleria di Minerva, II, Venezia 1697, p. 25s. (rist. in A. Vallisneri, Opere,
Venezia 1733, I, pp. 382-384).
Bibliografia: P. Bayle, Dict., IV, Amsterdam 1730, pp. 615-618;G. M.
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Aarene 1667-1670, Kiovenhavn 1817;E. Ferrario, La vita di F. G. B., Milano
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intorno all'alchimista G. B.,ibid, XVIII (1902), pp. 381-400; Id., Ancora
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B.,Th. Bartholin,H. Skriver, in Janus, XXIII (1918), pp. 41-47; D. Provenzal, Un
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D'Amato, B.: uno Stawisky del sec. XVII, Roma 1934; L. Thorndike, A Hist. of
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383-385; L. Belloni, La medicina a Milano sino al Seicento, in Storia di Milano,
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e Bibl. d'Italia, XXX (1962), pp. 289-301; L. Belloni, Il ciarlatano F. G. B. e
la rigenerazione degli umori oculari, in Simposi clinici, II (1965), 4, pp.
XLIX-LVI; S. Rotta, Materiali per la biografia di F. G. B., di pross. pubbl. in
Bibl. d. Corpus Reformatorum Ital.
Fonte: Treccani.it - studio di Salvatore Rotta Approfondimento: Giuseppe Francesco Borri, tra fornelli e Salamandre, di Massimo Marra Cronologia di Giuseppe Francesco Borri Lettere sul Commercio Cabalistico col mondo elementare I poeti italiani dell'aurea Rosa Croce
Notizie interessanti sul Borri sono riportate nel seguente volume
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