ricerche a cura di IniziazioneAntica
Per Orazio de Attelis, marchese di Santangelo, l’enorme polverone
alzato dalla sua presenza negli Stati era certamente cosa normale, in linea con
tutta la sua dirittura morale e il suo passato personale. Gli anni che vanno dal
1824 al 1844 accompagnarono però uno degli italiani più controversi tra quelli
giunti in terra americana, con un forte carico di polemiche.
Polemiche che non avrebbero mai toccato la sensibilità del de Attelis. In fondo,
lui aveva svolto soltanto con coscienza la sua missione di giornalista e
direttore della carta stampata, lasciando in eredità un foglio settimanale – “El
Correo Atlantico” - che si era guadagnato la fama cronistica sul duro campo di
New Orleans. L’editore era nato in una delle zone più controllate del derelitto
regno borbonico, nel 1774: Sant’Angelo di Limosano, era infatti situata in
quegli Abruzzi che rappresentavano la linea di confine settentrionale del regno.
Secondogenito di Dorotea D’Auria e del marchese Francesco, il ragazzo iniziò
subito un duro apprendistato alla vita a causa dell’avversione affettiva del
padre. Dispotico e tiranno in famiglia il padre di Orazio approfittò della prima
occasione per spedire l’inquieto figlio nel collegio dei nobili di Napoli.
Ribelle a ogni disciplina il giovane molisano si dimostrò subito all’altezza
della sua futura fama e a quindici anni interruppe gli studi per arruolarsi,
insieme al fratello maggiore, in Spagna nelle truppe dei reggimenti “Toledo” e “Nàpoles”.
Il molisano ebbe il suo battesimo del fuoco nelle battaglie contro i Marocchini
a Ceuta, ma tornato a Napoli nel 1792, si arruolò ancora volontario nel
reggimento “Re”. Orazio, per volere del padre, proseguì anche gli studi forensi
presso Leonardo Palomba, un noto avvocato molisano, nella cui casa conobbe i
primi rudimenti delle idee nazionalista. La coscienza rivoluzionaria inasprì
ancora di più i rapporti con il padre: Orazio decise di lasciare temporaneamente
Napoli iniziando un suo personale percorso che lo avrebbe portato negli angoli
più disparati del mondo. Il molisano si spostò dapprima per vari stati italiani
e nel 1794 giunse a Firenze, entrando in soli tre giorni ai vertici di una
loggia massonica. Tornato in patria militò nel reggimento di cavalleria “Napoli”
combattendo al fianco degli austriaci ma i continui scontri con l’armata
rivoluzionaria francese indussero il soldato borbonico ad aderire con ancora più
entusiasmo alla causa repubblicana. Abbandonata la divisa, egli si recò in
Francia e qui conobbe Barras, di cui fu per sette mesi segretario nella
Deputazione lombarda presso il Direttorio. Rientrato in Italia si stabilì a
Bologna e si arruolò nei “Cacciatori della Guardia Nazionale” fondando anche un
circolo costituzionale, di cui divenne principale animatore. Alla guida del
circolo l’indole ribelle del giovane marchese di Sant’Angelo si manifestò in
tutta la sua pienezza, ma il fallito tentativo di democratizzare il Granducato
di Toscana e la sfortunata congiura gli fecero assaporare le fredde stanze del
carcere. Condannato prima alla pena di morte e poi al carcere a vita, Orazio
scontò soltanto un mese nel penitenziario di Portoferraio. Quando le truppe
francesi occuparono la Toscana egli fu infatti tra i promotori della
insurrezione e venne acclamato eroe all’ingresso a Firenze. Nominato dal governo
provvisorio capitano del “Battaglione Toscano Rivoluzionario” de Attelis seguì
le sorti della spedizione francese e dovette riparare in Francia. La vita
avventurosa del giovane nobile molisano continuò in un alternarsi di vittorie e
sconfitte politiche e militari. Tornato in Italia al seguito della legione
italiana, partecipò alla battaglia di Marengo e passò nel piccolo esercito
toscano. Tornò però, dopo diversi viaggi in altre città italiane, in Francia
ottenendone la cittadinanza. Tutto questo non contribuì a calmare i bollenti
spiriti di un uomo pieno del sacro fervore repubblicano. L’unità dell’Italia
infatti divenne il pane quotidiano per il marchese de Attelis e lui, a sua
volta, divenne il volto noto delle polizie restauratrici italiane. Arrestato a
Napoli per un tentativo di congiura e liberato grazie alla buona parola
dell’ambasciatore francese, Orazio attirò su di sé anche le ire di quest’ultimo
paese per le sue idee dichiaratamente nazionaliste. Altro carcere quindi a
Firenze e di nuovo la libertà dopo tre mesi di prigione, con l’invito perentorio
ad abbandonare per sempre la Toscana. Trasferitosi a Milano, egli tentò di
pubblicare una “Gazzetta economico popolare del Mondo”, e fallito questo
tentativo ritornò a vestire i panni militari come volontario nella “Guardia del
Governo”. Fece quindi ritorno a Napoli, e nominato ufficiale di gendarmeria dal
nuovo governo della città, fu spedito a combattere il brigantaggio in Abruzzo.
Divenne capitano del Reggimento delle Guardie d’onore e con questo grado scortò
Napoleone in un tratto della ritirata di Russia. Nel militare molisano intanto
maturavano nuove idee politiche e una decisa avversione al regime di Murat. Per
tale motivo de Attelis fu allontanato ancora una volta da Napoli ma rientrandovi
solo al ritorno dei Borboni. Per pochi anni egli si dedicò all’avvocatura
(divenne avvocato dei poveri) ma presto la fiamma nazionalistica riprese corpo
trascinando il marchese sul libro nero dei Borboni. Braccato dalla polizia anche
in terra spagnola - dove aveva trovato ennesimo rifugio - Orazio decise di fare
il grande salto verso gli Stati Uniti.
“Il solo soggiorno convenevole all’uomo pensante, onesto e libero.” Questo era
il pensiero dell’ormai maturo avvocato molisano, all’approdo nel porto di New
York, nel 1824. Stretta amicizia con Lorenzo Da Ponte e con Giuseppe Bonaparte
egli aprì una scuola privata che durò un solo anno. Nel 1825 de Attelis si
spostò in Messico e nei giorni del congresso di Panama, consigliato dal
presidente del Senato, iniziò a scrivere un volume nelle quali esponeva le sue
idee politiche. Il soggiorno messicano durò due anni e nel 1827 l’ex
rivoluzionario molisano fece ritorno a New York per prendere il posto, l’anno
seguente, dell’amico Lorenzo da Ponte nell’insegnamento della letteratura
italiana e spagnola al Columbia College. Nel 1832 varcò di nuovo il confine con
il Messico, rispondendo a un’offerta dell’amico generale de Santa Anna, futuro
carnefice nella battaglia di Alamo: nel paese centroamericano egli rimase fino
al 1836 per dirigere un liceo nazionale, venendone espulso proprio ancora una
volta per le sue idee politiche contrarie a quelle dell’ex amico messicano
divenuto nel frattempo dittatore. Nuova città d’adozione di Orazio de Attelis
divenne allora la popolosa New Orleans. L’ormai attempato avvocato si adoperò
con tutto il suo fervore per la causa dell’indipendenza texana e nello stesso
tempo si prodigò nel sostegno agli italiani residenti negli Stati Uniti. Il
marchese divenne in questi anni amico dell’eroe texano Sam Houston,
condividendone in pieno lo spirito indipendentista e propagandandone le idee sul
suo foglio settimanale cui diede il nome di “Correo Atlantico”. Personalità
sempre pronta a scendere in polemica, de Attelis non si tirò indietro neanche
nella battaglia politica del 1844. Egli si schierò anima e corpo a favore del
candidato Henry Clay e tartassò duramente il candidato avversario James K. Polk.
La vena polemica non si esaurì neanche dopo la vittoria presidenziale di
quest’ultimo, liquidato dall’editore come “ambizioso demagogo”. All’orizzonte si
profilava intanto lo spettro della secessione confederata: fortemente allergico
alle idee schiaviste dei grandi proprietari terrieri sudisti, l’attempato
marchese e frustrato nelle sue idee repubblicane, mal visto dalla borghesia
sudista e dallo stesso presidente dell’Unione, l’editore decise infine di
abbandonare definitivamente la scena pubblica per dedicarsi alla sua
autobiografia. La calma interiore durò però soltanto lo spazio di due anni.
Notizie provenienti dall’Italia ridestarono in lui l’antica passione politica e
il maturo uomo di pensiero s’imbarcò per l’Europa nel 1847 per chiudervi gli
ultimi anni della sua vita. Nell’anno dei nazionalismi europei de Attelis si
mise a disposizione del governo costituzionale di Ferdinando II e poi, deluso
anche da questa esperienza napoletana, del governo sabaudo. Arrivò dopo varie
tappe a Roma per conoscere Mazzini durante
i pochi mesi della Repubblica romana ma la sua presenza era ormai ingombrante. Estraneo ai nuovi pensieri repubblicani, bollato come un giacobino troppo estremista, e incapace di confrontarsi con le nuove realtà sociali e politiche del Bel Paese, de Attelis divenne un peso morto per le nuove leve del nazionalismo italiano e come tale accantonato a un angolo della scena politica. Fece però in tempo a fare il suo ultimo salto di esule, fuggendo da Roma assediata dai Francesi per riparare in quella Civitavecchia che sarebbe stata la sua ultima dimora terrena. Il polemico marchese morì il 10 gennaio del 1850 mettendo fine a un esperienza umana tutta dedita ai sogni di democrazia.
La Tradizione Massonica Molisana
Il
testo che qui di seguito viene presentato, ritrovato su un vecchio numero della
“Rivista della Massoneria Italiana”, propone il racconto di una festa religiosa
molisana, la festa di S. Antonio del 13 giugno a Montagano. L’inconsueto angolo
di osservazione è quello laico e duramente irriguardoso della massoneria, che
del disprezzo verso questo genere di manifestazioni, contrapposto a una visione
del mondo che si voleva scientista, positiva, immune da ogni superstizione,
aveva fatto un caposaldo della sua propaganda. I toni dell’articolo sono
riconoscibili da chiunque abbia familiarità con questo genere di pubblicistica:
anticlericali in modo violento, da “invasati dello spirito di Satana” ,
definizione in cui, dopo quella antica e memorabile di “sterco del demonio”,
anche in anni piuttosto recenti ha continuato a riassumersi la posizione della
Chiesa nei confronti della massoneria. Come autore dell’articolo, dietro lo
pseudonimo di Curio è facile riconoscere Rocco Escalona, copioso collaboratore
della “Rivista” massonica”, e personaggio noto agli specialisti di stampa
periodica molisana dell’Ottocento come fondatore (nel 1877) e poi direttore
(fino al 1881) del settimanale “La Libertà” di Campobasso. Clinico, filosofo,
pedagogista, per detto dei repertori biografici del tempo , nativo di Ispani
(Salerno, 1837), garibaldino, arruolato nel personale medico al seguito della
spedizione dei Mille, gregario del Generale lungo tutti gli itinerari della sua
turbinosa odissea, Escalona era stato trasferito nel Molise nelle più tranquille
vesti di direttore scolastico che aveva assunto quando la situazione era venuta
a normalizzarsi. Il suo articolo, per livello stilistico e intellettuale, per la
stupida arroganza, per la odiosità degli apprezzamenti verso la terra che lo
ospitava, davvero non merita altri commenti che non siano quelli relativi al
valore puramente documentario del testo, specchio di un’epoca di positivismo
dominante, con le sue arrangiate varianti etnologiche, e già incline a
precipitare nel materialismo più rozzo e limitato, concepito “come visione
totale della realtà contrapposta al cattolicismo” , “dove l’antitesi con lo
spiritualismo non era né superata né risolta, e forse neppure consapevolmente
affrontata”. Più interessante potrà magari risultare qualche cenno sulla
tradizione massonica molisana, che non pare sia mai stata trattata in modo
specifico, nonostante il forte rilievo storico di certi suoi protagonisti, da
Giuseppe Zurlo a Vincenzo Cuoco, da Francesco Longano a Orazio De Attellis. Il
massone molisano dalla carriera più luminosa fu senz’altro Giuseppe Zurlo. Già
nel 1784 Maestro Scozzese dell’aristocratica loggia “La Vittoria” ; in epoca
murattiana Primo Gran Maestro Aggiunto del Grande Oriente di Napoli (Gran
Maestro Titolare, ma con carica ovviamente onorifica, era Murat in persona),
Zurlo fu tra i fondatori della prima e praticamente rimasta unica “loggia
illuminata” in Italia, creazione della massoneria più concreta e razionalista,
ispirata ai criteri illuministici più ortodossi, lontana tanto dalle simbologie
esoteriche e misteriose quanto dallo spirito festaiolo e godereccio che
caratterizzava buona parte delle pratiche massoniche del tempo. Ideatore tenace
ne fu il teologo danese Frederich Münter, propagandista massone inviato in
Italia per riorganizzare i quadri di un Ordine molto chiacchierato e reclutare
altri, più selezionati proseliti.
Zurlo fu tra questi, oltre a fare da mentore e
guida al giovane danese nei suoi soggiorni a Napoli e in Calabria, dove il grand
commis aveva prestato servizio dopo il terremoto del 1783, non mancando di
frequentare le logge locali e di intrecciare rapporti con gli esponenti più in
vista, primo fra tutti Agamennone Spanò, immolatosi nel 1799 insieme all’altro
calabrese intimo di Münter, il fine grecista Pasquale Baffi. E proprio
l’appartenenza di Zurlo alla loggia degli Illuminati, in compagnia di personaggi
quali Gaetano Filangieri, Mario Pagano , Nicola Pacifico, voluta da un
personaggio scrupoloso e intelligente come Friederich Münter, in buona misura
smentisce l’ipotesi di uno Zurlo affiliato per scopi puramente opportunistici,
come pure la sua strabiliante carriera tanto sotto i Borboni che con Gioacchino
Murat potrebbe far dubitare. Ancora anteriore (1768) risulta l’affiliazione di
Francesco Longano, per la precisione alla “Perfect Union Lodge” di Napoli,
dipendente dal Grande Oriente d’Inghilterra, dalla quale nel 1770 si trasferì
alla loggia “L’Harmonie” . Longano, che si ricorderà scelto da Antonio Genovesi
come suo successore alla cattedra di economia politica, insieme con Mario
Pagano, Gaetano Filangieri, Felice Lioy, i fratelli Forges Davanzati,
rappresenta la saldatura della massoneria napoletana alla scuola genovesiana,
con quella comunità di intenti, quella analogia di spirito, quella coincidenza
di motivi cui nuova luce, e nuova documentazione, hanno portato gli studi di
Franco Venturi sul Settecento napoletano . E i vincoli fra queste due matrici,
al di là della comune retorica , si stringevano via via che gli allievi,
maturata l’esperienza nella scuola, tornavano nelle loro province e fondavano
società agricole, applicavano a piccole o grandi proprietà le direttive
concrete, tecnicistiche, che erano il succo del tirocinio genovesiano,
dispensato con la ricchezza e la profondità di chi si converte all’industria,
all’economia, al commercio, alle pratiche materiali, dopo anni di studi
metafisici; oppure aprivano a loro volta delle scuole, veri centri di formazione
come fu, per il Molise, nella Civitacampomarano degli allievi genovesiani
Attanasio Tozzi e Francesco Maria Pepe , al cui ammaestramento si forgiarono le
punte della cultura molisana dell’epoca: Amodio Ricciardi, Nicola Neri, Giuseppe
Sanchez, oltre ai civitesi Vincenzo Cuoco, Gabriele e Raffaele Pepe, e Nazario
Colaneri che troveremo più avanti, a guida della prima loggia massonica molisana
di cui sia documentata l’esistenza. Esiste,
nell’epistolario di Genovesi , una fitta corrispondenza con la provincia, con
ex-allievi ritornati nelle loro terre di origine, che andrebbe minuziosamente
riaperta e riesaminata per penetrare sino in fondo a questo connubio tra
illuminismo riformatore, concepito nei centri ma incarnatosi all’ombra della
provincia, e massoneria inquadrata nel suo periodo più fecondo e pulito. Su
questa linea si porrà lo stesso Zurlo, soprattutto nei suoi anni di governo con
Murat: le circolari emanate da ministro dell’Interno, con il suo “interesse alla
conoscenza concreta e documentata dei problemi che riguardavano la vita del
Regno [...], le sue richieste continue sulla natura delle coltivazioni, sulla
quantità dei raccolti, sullo stato delle terre incolte, sulla estensione e sulle
condizioni dei terreni paludosi, sulla estensione dei boschi e sui tagli che vi
si effettuavano” sembrano a volte copie esatte dei carteggi di Genovesi con i
suoi vecchi allievi degli Abruzzi o delle Calabrie, intorno all’esatto sistema
di piantagione dei fagioli o delle patate. È del resto l’impronta che assumerà
l’inchiesta murattiana del 1811, nello stile stesso dei suoi diversi relatori; è
l’impronta di Galanti e, nella sua parte più sana e positiva, più legata alla
concretezza dei problemi, anche dell’amministratore Vincenzo Cuoco.
L’appartenenza di Cuoco all’organizzazione massonica è rivendicata da Giuseppe
Leti, storico e alto dignitario dell’Ordine , con una digressione assai
interessante intorno all’influenza che ebbe sulle simpatie massoniche del
giovane Manzoni : un’infatuazione ampiamente riversata nel Trionfo della
Libertà, scritto a 15 anni e disconosciuto in età più saggia. Più recente la
testimonianza di Giordano Gamberini , Gran Maestro della Massoneria italiana dal
1961 al 1970 e persona molto seria. L’episodio più saliente dell’esperienza
massonica di Vincenzo Cuoco, probabilmente iniziato a Napoli dal De Attellis,
nella cui casa soggiornò a lungo, risale al periodo milanese, ed è la
costituzione di una loggia collegata al club di napoletani che a Parigi, sotto
la guida del principe di Moliterno, complottava per ripristinare in Napoli la
Repubblica partenopea . Il tentativo, che rischiava di mettere in crisi
equilibri politici e diplomatici ancora molto fragili, non trovò nessun appoggio
da parte delle autorità lombarde, che anzi provvidero a sciogliere la loggia.
Già parecchio nota (discreta parte della storia della massoneria nazionale è
anzi stata ricostruita sulla base dei documenti ritrovati fra le sue carte) è
l’attività massonica del barone Orazio De Attellis: rivoluzionario,
guerrigliero, giornalista e pedagogo, personaggio dalla biografia travolgente,
sul genere dei più fantasiosi soggetti cinematografici, eroe non si sa per quale
ragione sentito poco “molisano”. De Attellis arrivò al grado di Gran Maestro del
Grande Oriente delle Due Sicilie, ma fu protagonista in prima linea anche in
Toscana: durante il suo burrascoso soggiorno nel Granducato, proseguito
sull’isola d’Elba come condannato a morte, fra i detenuti politici reclusi nel
carcere di Forte Falcone, fu membro della storica loggia degli “Amici della
Perfetta Unione. Nazario Colaneri , di cui abbiamo detto, rivoluzionario del
1799, “viso aperto, modi schietti, uomo di probità” nel ricordo del Tommaseo,
compare alla guida della prima loggia propriamente molisana di cui sia
documentata l’esistenza: la già nominata “Riunione dei Veri Amici”, fondata a
Campobasso il 28 novembre 1811 . Colaneri, in epoca appena posteriore (1813),
figura anche nella lista degli Officiali Ordinari del Grande Oriente di Napoli,
insieme a tale Giuseppe Scioli, “prete”, probabilmente originario di Monteroduni,
Esperto nel Gran Capitolo dei Gradi. Al fianco di Colaneri, a guida della
“Riunione dei Veri Amici”, è Berardino Musenga ), architetto con l’animo
d’artista e cuore sensibile, cultore dell’euritmia e sperimentatore delle teorie
illuministe in quell’arte così distante dal terreno elettivo dei Genovesi e dei
Galanti, morto suicida dopo il fallimento del suo progetto di riedificazione
della chiesa della Trinità che era crollata con il terremoto del 1805.
Un’altra loggia, denominata “Aurora Boreale”, sorta
a Campobasso non è dato sapere se succedendo o affiancandosi alla “Riunione dei
Veri Amici”, e poi demolita, cioè sciolta, nel 1820, fu ricostruita, conservando
lo stesso nome, solo nei primi anni Ottanta del secolo scorso. Maestro
Venerabile, ossia capo loggia, era Andrea Bosio, cognato di Francesco Bucci,
altro massone di primo piano, che sarebbe stato per più di vent’anni sindaco di
Campobasso. Bosio, funzionario dell’Intendenza di Finanza, ebbe in quel ruolo
una carriera rapidissima, al punto da sollevare le reazioni della fazione
cittadina opposta, che si era riunita sotto le insegne della Lega per bene e
aveva come suo organo di stampa “L’Unione”, giornale che si sarebbe distinto per
la prima, vera campagna antimassonica della storia molisana, a fronte di una
presenza della massoneria che nelle istituzioni del capoluogo incominciava a
straripare: pressoché interamente occupati erano all’epoca l’amministrazione
comunale, il Municipio stesso per la presenza del potentissimo segretario capo,
Michele D’Alena; la Banca Popolare Cooperativa; la Camera di Commercio; il
Comizio Agrario, il più solido organo di stampa della città (il “Sannio” di cui
diremo); le principali organizzazioni di carità del capoluogo, il Circolo del
tiro a segno, in cui si riuniva il meglio della borghesia locale, fino al locale
Club Alpino, presieduto dallo stesso Bosio, che andava affermandosi come altro,
prestigioso luogo di riunioni: “la presenza di propri rappresentanti nelle
principali istituzioni cittadine” era uno dei risultati di cui la massoneria
locale più andava orgogliosa, come avrebbe dichiarato lo stesso Bosio nella
relazione stesa alla fine del suo mandato di Gran Maestro della Loggia “Aurora
Boreale”, ascrivendo ai suoi meriti anche la mobilitazione per far fronte
all’epidemia di colera del 1884, con spedizione di carichi di arance e di riso
verso le zone della provincia più flagellate dal morbo (il mandamento di
Castellone al Volturno).
Allontanatosi Bosio, rifatte le elezioni, nuovo
Maestro Venerabile venne nominato un puro rappresentante indigeno, Giacomo
D’Onofrio (altro cognato del sindaco Bucci) avvocato e filosofo, positivista e
neoscettico sulle orme di Gaetano Trezza, non a caso già assiduo collaboratore
della “Libertà” di Rocco Escalona, quest’ultimo certamente non estraneo alla
ripresa massonica molisana dopo sessanta anni di oscurità . Oratore nello stesso
consesso era Lorenzo De Luca, barone di Pietralata, solido per quanto
chiacchierato pubblicista, corrispondente della “Tribuna”, direttore di una
prima serie del periodico “Il Sannio”, di Campobasso, dal 1882 , di una seconda
serie dal 1901, nel 1902 animatore dell’eccellente giornale socialista “Vita
Nuova”, di Guglionesi, strumento di promozione della Unione Popolare
Cooperativa. “Il Sannio” sarà per lungo periodo l’organo della massoneria
cittadina, e come tale fonte di preziose informazioni su un’organizzazione assai
meno segreta di quanto sia stato tramandato. Da queste pagine si apprenderà
della lunga militanza massonica di Nicola De Luca, padre di Lorenzo, il cui
necrologio (stilato da Francescantonio Marinelli) apparirà contornato di vistose
simbologie massoniche, e della affiliazione di altri personaggi molisani
illustri come Michelangelo Jacampo, di Vinchiaturo, patriota della Giovane
Italia già nel 1831 (a 14 anni), salutato come “uno fra i più nobili operai
addetti all’erezione del nostro mistico tempio” nel discorso funebre tenuto da
Lorenzo De Luca a nome dei “fidi seguaci dell’ucciso Hiram Abi”. Onoranze
massoniche toccheranno anche agli scomparsi fratelli Ferdinando Barone, della
grossa famiglia di industriali di Baranello, e Domenico Altobello novantenne,
avvocato dai solidi trascorsi liberali. Lo stesso giornale con una massiccia
campagna sarà al fianco del massone Pietro Sbarbaro, l’uomo che aveva messo a
soqquadro il mondo politico di quegli anni con una raffica di best-seller
scandalistici e con i suoi giornali, “Le Forche Caudine” e il “Nabab”, che
sarebbe costato al suo editore, Angelo Sommaruga, la completa rovina e l’esilio
in Sudamerica. Segretario della loggia “Aurora Boreale” era Desiderio De Feo,
altro garibaldino, che da consigliere provinciale, molto si darà da fare per
l’iniziativa massonica delle “cucine economiche”, un’organizzazione di mense
semigratuite per i poveri voluta dalla locale Congregazione di Carità , e
altrettanto, con maggior fortuna, per la annosa questione ferroviaria del Molise
che lo vedrà a un certo punto fra i protagonisti. Nell’organigramma dei
dignitari della “Aurora Boreale” anche l’ingegnere Gustavo De Luca, cugino di
Lorenzo, direttore dei lavori nella costruzione dell’acquedotto di Monteverde,
inaugurato nel 1889, e protagonista dei furiosi scandali che avrebbero segnato
le sorti dell’amministrazione comunale di Francesco Bucci, rovesciata ai primi
del Novecento dal deputato Michele De Gaglia, altro affiliato alla “Aurora
Boreale”. Da questo punto (forse in conseguenza della precoce scomparsa di
Giacomo D’Onofrio, forse per il dissesto economico della Banca Popolare
Cooperativa) della loggia “Aurora Boreale” si perderanno le tracce nei documenti
ufficiali del Grande Oriente d’Italia, non risultando né tra le logge “attive” –
e parecchio puntuali e disciplinate, anzi “prodigiosamente operosa” – come era
stato per tutto il 1884-1885, né tra quelle “in sonno”, né tra quelle morose, né
tra quelle “demolite”. Le riunioni, i rituali, i maneggi proseguiranno con tutta
probabilità nelle camere più riposte, nei capitoli e nei consigli di cui si è
parlato, molto in linea con la politica elitaristica dell’allora Gran Maestro
della Massoneria nazionale, Adriano Lemmi, che proprio in quegli anni (1885)
avviava il programma che avrebbe fatto della massoneria una vera e potente
organizzazione classista della borghesia: solidarismo e spirito egualitario
nella propaganda e nei proclami, elitarismo, e tassa di 100 lire per ogni
aderente, caso mai a qualche lavoratore fosse venuta la tentazione, nelle
concrete applicazioni. A Campobasso trovava senz’altro terreno molto fertile.
Silenzio, quindi, ufficiale, sino alla fine del primo decennio del Novecento,
quando, dopo la burrascosa scissione voluta da Saverio Fera, che avrebbe visto
fra i protagonisti una numerosissima loggia isernina misteriosamente sorta nel
frattempo (la “Cesare Battisti”), oltre al già molto potente Enrico Presutti,
gli equilibri si sarebbero velocemente ricomposti dando vita a un’epoca di vero
boom, con un grande intrecciarsi di logge e di triangoli, capitoli, sublimi
aeropaghi fra Isernia, Campobasso, Riccia, Agnone, San Martino in Pensilis,
Termoli, Larino, con protagonisti molto in vista, da Giulio Colesanti a Michele
Cervone ); Eugenio Cirese, che fu direttore di “Battaglie di Lavoro”, organo
notorio, confesso e parecchio velenoso della massoneria del capoluogo; i
giornalisti Vincenzo Bevilacqua e Michele Maiorino ; gli insegnanti Antonio Di
Lullo , Giuseppe Tombara (direttore della Scuola Normale Femminile di
Campobasso) , Antonio Zappetta , i professionisti isernini Alessandro Perna e
Vincenzo D’Apollonio ; i deputati Carusi, Baldassarre, Marracino, Presutti,
Pietravalle, Veneziale, Cannavina (che da senatore si oppose con molta lealtà
alla legge fascista di soppressione della massoneria) e quanti altri che sarebbe
lungo enumerare, finché i fascisti, nel 1925, non prima di aver invaso e
devastato, a Termoli, la loggia “Ernesto Nathan” da poco inaugurata, misero
l’organizzazione fuori legge, provocando una fuga generale, e l’esodo verso le
tessere fasciste a tutti tristemente noto.
Marchese Orazio De Attellis
Grande Oratore della Grande Loggia Simbolica
del
Grande Oriente delle Due Sicilie
Prefazione per gli Statuti Generali della Massoneria Scozzese
editi in Napoli nel febbraio del 1821
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Lettore Fratello,
Vada pur altri a cercare il primo anello massonico nella culla del mondo, e nell’arca di Noè, nella torre di Babele, nel decalogo di Moisè, nel tempio di Salomone. Altri ti conduca a visitare i templi di Menfi, di Tebe, di Saïs, di Eliopoli, e quello che ad Iside fu eretto in mezzo a Roma, ove, al dir di brillante scrittore, anche que’ fieri conquistatori pretesero di appropriarsi la influenza morale delle iniziazioni. Neppur farò dispute con Waburton e Robin, se nel sesto libro della Eneide siasi simboleggiata la iniziazione di Augusto a’ misteri eleusini dopo la battaglia di Azio. Lasciamo l’albero genealogico della massoneria da banda. Vo’ però dirti che né gli esterminj di Nabuconodonosor e di Tito Vespasiano; né le persecuzioni di Costanzo, di Graziano e di Teodosio; né la distruzion de’ sacrificj de’ Druidi; né il diluvio di sangue che risommerse il mondo morale nel caos per le conquiste di Maometto e di Omar in oriente, e per le incursioni de’ Goti, de’ Vandali e de’ Borgognoni nell’occidente; né la orribil catastrofe de’ Templari; né le riforme più speciose che utili de’ Cronwell e degli Orleans; né gli anatemi di Clemente XII, e di Benedetto XIV; né quante proibizioni o persecuzioni ebber luogo nel 1735 in Olanda; nel 1737 in Francia, a Gand nelle Fiandre, ed in Isvezia; nel 1739 in Polonia; nel 1740 in Ispagna e nel Portogallo; nel 1741 in Malta; nel 1743 in Austria, e nel 1751 in Napoli [1]; né la calunniosa superstizione, né le prostitutrici protezioni dell’abile tirannide, poteron mai abbatter l’ordine de’ liberi muratori. La falce del tempo, cui nulla resiste, ha dovuto rispettarlo. Donde un simil prodigio? Da due potentissime cagioni: santità di principj, e perfetta uniformità di dottrine, di riti e di leggi in tutti gli angoli della terra.
È superflua ogni dimostrazion della prima. Ad un iniziato il re
d’Inghilterra Arrigo VI dimandò: un massone m’insegnerà egli le
stesse arti che voi avete imparato? Ripigliò l’altro: vi
s’insegneranno se ne sarete degno, e se sarete capace di
apprenderle. Federico II era un re, e pur meritò di esser massone. Generalizzata con ta’ mezzi misteriori ne’ petti umani la conscienza della propria dignità, ben tosto la sovranità inalienabile de’ popoli abbatte la decantata legittimità de’ troni non consacrata che dal diritto della bajonetta. Sciolte in tal guisa le menti ed i cuori da’ lacci della servilità, sorgeranno senza quasi volerlo, né saperlo, i popoli-re. Pur v’ha de’ massoni intrusi che accusan la massoneria, specialmente scozzese, di despotismo… Essi non si acchetano se non sien salutati membri del 33, o non si accordin loro tutti i gradi della massoneria ermetica o cabalistica [2]. Così è. Si predica la libertà per giungere a dispotizzare. Il libero muratore, talun dice, non dee conoscer gerarchie, né distinzioni… Voi siete despoti, io rispondo a costoro, o pazzi che correte a farvi caricar di catene. Voi liberi per la difesa de’ vostri diritti contro l’abuso del potere altrui, non per abbattere ogni potere, e quella gerarchia, ch’è tanto più rispettabile in quanto è convenzionale e spontanea, e la quale intrattiene ciascun de’ socj nella sfera, in cui natura ha sovranamente circoscritte le di lui qualità morali e fisiche. Chi vi obbliga ad esser massoni? È un vile speculatore, o un imbecille, e sempre spergiuro chi tiene il vostro linguaggio.
Studiate e vedrete chiaro. La massoneria, ben dicesi ne’ statuti
di Milano, comunque da’ profani creduta gergo sterile ed
insignificante, è la più sublime delle scienze. Dessa esercita la
ragione, fissa l’attenzione, stimola l’attività, e fa progredire lo
spirito spontaneamente da sé. Ma nulla si giunge mai a conoscer
d’importante che a misura dello sviluppo analitico delle dottrine di
ciascun grado, mirabili prodotti di lunghe ricerche, di replicati
tentativi, e di una fermezza di spirito a tutte pruove. La deficienza di statuti generali ben completi e regolarmente ordinati, così nelle due Sicilie che dovunque, se non ha finora distrutto l’ordine de’ liberi muratori, ha certamente reso frustraneo tutto il bene che si avea diritto di attenderne. La ignoranza, la difformità e l’arbitrio hanno avuto luogo di legge ne’ nostri templi [3]. La penna rifugge dal tracciare i disordini liberticidi e demoralizzatori che sonosi moltiplicati al raggio medesimo del divino delta [4]. Ecco perché ho avuto l’ardimento di por mano ad una redazione immensamente al di sopra delle mie forze. Non son però io corso sulle rive del Giordano a consultar gli statuti degli anacoreti del Libano o della Palestina. Neppure ho svolto gli archivj di Edimbourg, o di Upsal nella Svezia per rinvenirvi le costituzioni ivi depositate dagli 81 deputati de’ F.F. crociati, che si stabilirono in Gerusalemme all’epoca delle prime conquiste di Buglione. Ho data la preferenza a’ statuti scozzesi pubblicati in Milano nel 1806, 1°. perché meno incompleti, più autentici degli altri, e mediocremente ordinati; 2°. perché redatti per la nostra Italia, e da mano italiana sommamente religiosa nel rispettare la primitiva purità e severità della legislazione universale dell’ordine.I statuti di Milano, da’ quali ho solamente risecato le amfibologie, i pleonasmi, e quanto evvi di parasito, disponendo in modi più convenevoli le materie progressivamente articolate, sonosi nel resto da me quasi ad literam copiate. Il difficile era il riempirne i vuoti, onde il mio insieme niente lasciasse a desiderare. Vi ho supplito; e bastan le più superficiali cognizioni della vera ed antica massoneria per convincersi che a nulla ha contribuito la mia fantasia. Son ricorso a’ regolamenti generali in Edimbourg nel 1090, quando non conoscevasi massoneria al di là dell’attuale 14.mo grado. Son ricorso a’ statuti particolari de’ sublimi gradi concistoriali per ciò che non deesi ignorare dalle officine di gradi inferiori. Ho consultato in poche occasioni lo statuto di Parigi, di cui fu fatta e pubblicata nel 1808 in Napoli una storpiata traduzione nelle vedute della monarchia assoluta allora vigente in queste belle, rispettabili e sempre infelici contrade; statuti non dell’ordine, ma di un G.O. di cui Murat era il capo, e l’anti-filantropismo era lo scopo [5]. Mi han giovato finalmente le produzioni storiche, legislative o filosofiche di quanti illustraron la biblioteca mistica di quest’ordine celebre [6]. Parrà strano per altro che sull’esempio de’ statuti di Milano io abbia fatto ne’ miei un confronto tra’ due riti scozzese e francese, altrimenti riformato. Perché questa confusion di riti? La massoneria francese diversifica forse dalla scozzese nel solo rito, ovvero anche nella parte scientifica, locché è indubitato? L’amalgama di un antico instituto (di cui si voglia seguire senza restrizioni il corso regolare) con moderne e mutilatrici riforme, non è forse col fatto un vero imbastardimento dell’uno e delle altre? La riforma, ch’è in sostanza uno scisma, non dee forse aver le sue leggi particolari? Il benedittino ed il zoccolante, lo scopo religioso de’ quali è pur il medesimo, saranno essi tenuti ad osservare una stessa regola, e portarsi al coro nelle stesse ore del giorno o della notte? Qual diritto hanno i professori di riforme e d’incogniti riti, di qualificarsi membri di un ordine essenzialmente uno ed invariabile? Qual preferenza del rito francese su’ riti dello scozzesismo suddiviso in antico ed accettato, in quello di Edimbourg, di Hérédon, di Kilwinning, di York, e nel rettificato, e nell’illuminismo [7] etc. e su tutti que’ scismi che sotto lo specioso titolo di riforme salutari lacerarono in ogni tempo la massoneria in Germania [8]? Qual predilezione ingiuriosa per tanti altri nostri venerabili fratelli, i quali, ovunque degenti, travaglian, come noi, alla riedificazione del gran tempio, quantunque con riti dissimili?
La ragione è chiara. Generalmente in Italia, e più nelle Sicilie,
mai non si professò che il vero ed antico scozzesismo. Questo rito
fu indi da profane proscrizioni in pochi petti confinato. Avvenne la
rivoluzione di Francia, e la massoneria fu tra noi rianimata. Ma
imitatori delle idee politiche de’ francesi, dovemmo per poco
esserlo anche del rito massonico tra essi in voga
[9].
Era naturale per altro che richiamati noi all’insigne professione
dell’arte reale, il rito scozzese riconquistasse finalmente l’antico
primato. L’altro non è però spento, e niuno ha il diritto di
comandare alle opinioni altrui. Or nulla brigandomi di tanti altri
riti a me ignoti, e che importa non conoscere, ed affinché i seguaci
del rito scozzese non guardino biecamente que’ del francese, e
mantengasi tra gli uni e gli altri la più fraterna corrispondenza,
ho creduto espediente il render loro egualmente proficui i mei
statuti generali. Pubblicherò, quando non mel vieti il dovere di correre alle frontiere in difesa della patria orribilmente minacciata, una moltitudine d’idee che io credo conducenti al desiderato riordinamento delle nostre cose massoniche. Non superfluamente avrò intanto dedicato diversi articoli de’ presenti statuti generali a far conoscere i mezzi legali, onde regga senza profanazioni una fraterna corrispondenza tra’ liberi muratori professanti diverso rito, e si assicuri particolarmente al rito riformato (francese), non affatto estinto tra noi, un idoneo regime nel seno medesimo del G. O. scozzese. Questi mezzi, attinti negli antichi codici della sapienza muratoria, non basteranno forse allo scopo? Tanto peggio. Il mio dovere è fatto.
Ti saluto tre volte.
Gli Statuti recano nell’ultima pagina (la 174) l’approvazione di Domenico Gigli «al 30.mo gr. scozz.», di Tommaso Mazza «al 30.mo gr. scozz.» e, per l’appunto, di Orazio De Attellis «al gr. 32.mo scozz.», nelle loro qualità di Grandi Oratori, rispettivamente, della Gran Loggia di amministrazione, del Sovrano Capitolo generale e della Gran Loggia Simbolica.
NOTE
[1] Fu nel 1751 destinato in Napoli un persecutore per ciascun ceto di persone: il duca di Miranda per le cariche di corte; il duca di Castropignano pe’ militari; il presidente del consiglio pe’ forensi; il principe di Centola per la nobiltà; ed il primo elemosiniere del re per il clero. [2] Fiorisce attualmente in Napoli il sig. D…. C…. possessore del millesimo grado di non so quale massoneria. Egli va iniziando, per 18 piastre, a scienze cabalistiche, cagliostriche, alchimiche, fantasmagoriche. Nello stesso attimo egli è presente in più luoghi lontani l’un dall’altro. A traverso di una bottiglia, e sulla mano di una pupilla egli fa vedere il passato, il presente-assente, ed il futuro. Un tronco di legno, o un vaglio, svela ad un suo cenno ignote verità. I vostri antenati lascian gli Elisi per comparire alla vostra presenza. Ecco un massone di que’ che in altri tempi la superstizion religiosa riputava stregoni di pieno diritto, e de’ quali confutava le dottrine col bruciarli vivi! [3] In una delle migliori logge di Napoli, in lavori di apprendente, furon fatte un mese fa in mia presenza, l’una appresso all’altra da diversi opinanti, le seguenti mozioni: 1. si abolisca il consiglio del 33, di cui i scozzesi non han bisogno; 2. si sciolgan i GG. OO. giacché le centralizzazioni sono pericolose; 3. si abbruci tra le colonne il G. commendatore ad vitam; 4. la massoneria si dichiari non più confacente allo spirito del secolo…! [4] Delta è la lettera D greca, la di cui forma è un triangolo equilatero, emblema della eternità. D è la iniziale della voce Demiurgos, con quale in Atene designavasi la divinità creatrice. Delta è pure il nome del basso Egitto celebre per le cose misteriore. [5] Chiamo in testimonio la rispettabile e miseranda carboneria del 1811! Chiamo l’ombra di Capobianco…! [6] Tra gli altri il sig. de Sainte Croix, Gebelin, Barthelemy etc. e Preston, Éclaircissements sur la franc-maçonnerie, Hutchinson, Esprit de la franc-maçonnerie, Cramer, Societas Rosae crucis etc. Vedi pure l’Histoire des statuts et règlements de la confraternité des maçons, Francfort 5742; les Annales maçonniques, Les francs-maçons dans la republique; e tante altre opere, cui la brevità del tempo non mi ha permesso di consultare su quanto potea risguardare il mio oggetto. [7] Vi è chi ha sostenuto che Walter, gentiluomo danese, soprannominato Stuard dal popolo, introdusse il primo la massoneria in Iscozia. Un de’ suoi discendenti ottenne lo scettro nel 1371 dopo la morte di Mercolino. [8] Si sa che la Germania fu sempre il paese de’ scismi, e delle sette non men filosofiche che letterarie e religiose. [9] I Francesi aveano in buona fede adottata la riforma operata da Filippo d’Orleans. Ma perché costui operolla? Cospirando alla usurpazione del trono, pres’egli la maschera di repubblicano e di massone. Ma, iniziato al 30° grado scozzese, ebbe ragion di temere che un giorno non si rivolgesse contro di lui il braccio medesimo che volea far servire a’ suoi progetti. Quindi riforma della massoneria scozzese. De’ 33 gradi si annullino, diss’egli, gli ultimi 15, e si riducano i primi 18 a 7. Disse e fu fatto. I nemici del potere concistoriale (que’ cioè che mai non avean potuto ottener gradi al di là del 18.mo), lo secondaron vivamente. Altri videro nella riforma il mezzo per giunger prestamente, e con poco studio e minor dispendio, al nec plus ultra, e l’abbracciarono con avidità. I militari soprattutto, de’ quali Filippo più ambiva il favore, furon contenti di non aver più a subire 33 iniziazioni, né ad apprendere 33 catechismi, ne’ lor templi volanti. Per questi calcoli, e per la incostanza francese, e per la forza dell’oro, e niuno accorgendosi della bizzarra conversione della massoneria in una commedia buffa, la riforma fu proclamata in Francia, e predicata ovunque le armi francesi penetrarono. |
Fonti: Documento - Carboneria
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