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ricerche a cura del dott. Luigi Braco


Vita e Opere

 

Alphonse-Louis Constant (1810-1875), vero nome di Éliphas Lévi, nasce a Parigi nel 1810, da padre calzolaio e madre religiosa ma analfabeta. Compie i primi studi grazie a l’abate Hubault Mailmason che dispensava le prime basi dell’istruzione scolastica ai bambini poveri delle sua parrocchia. Nel 1825 continua gli studi al seminario minore di Saint Nicolas du Chardonnet, diretto dall’abate Colonna, che come riportano alcune fonti, gli avrebbe trasmesso il primo interesse per la magia. Nel 1830, secondo la regola del seminario, passa al seminario d’Issy per continuare il biennio in filosofia. Muore il padre.  Constant, proseguendo regolarmente negli studi, arriva al seminario di Saint Sulpice per dedicarsi alla teologia.


Saint Sulpice

Nel 1835, durante il catechismo, la madre di Adèle Allenbach, una sua allieva, lo prega di seguire la figlia, istruendola a parte e proteggendola come se fosse la figlia di un principe. La madre di Adèle era una fervente cattolica sposata ad un’ufficiale svizzero, emigrata in Francia per salvaguardare la religiosità minacciata della figlia; il trasferimento aveva portato le due donne a vivere in uno stato d’indigenza. Constant s’innamora perdutamente dell’allieva, in cui arriva addirittura a credere di vedere l’incarnazione della santa Vergine. Il 19 dicembre 1835 viene ordinato diacono; ma nel giugno del 1836, prima di ricevere il sacramento dell’ordine, abbandona il seminario pur di non rinunciare alla passione per Adèle. La relazione con la ragazza, tuttavia, finisce. La madre di Constant, vecchia e malata, avendo riposto tutte le speranze nella carriera ecclesiastica del figlio, si suicida. Constant medita di ritirarsi in un convento di trappisti, ma gli amici lo dissuadono. Passa un anno in un pensionato di Parigi, dove conosce Bailleul, un commediante ambulante che decide di accompagnare in tournée attraverso la provincia. Nel  1838 conosce la giovane socialista Flora Tristan e collabora con Alphonse Esquiros, incontrato ad uno spettacolo. Conosce anche Honorè de Balzac a casa di Madame de Gerardin. Constant però decide di riprovare con la vita sacerdotale e raggiunge l’abbazia di Solesmes, dove vorrebbe passare il resto dei suoi giorni.

abbazia di Solesmes

L’abbazia  possiede un’immensa biblioteca, con circa 20.000 volumi, a cui attinge a piene mani. Constant studia la dottrina degli antichi gnostici, quella dei Padri della Chiesa Primitiva, i libri di Cassiano e degli altri asceti, oltre che trattati di mistica e gli scritti di Guyon. Secondo alcune fonti, in questo periodo, egli scrive la sua prima opera le "Rosier de Mai", 1839.

A causa di dissapori con l’abate di Solesmes, lascia il convento prima della fine dell’anno. Constant si trova ora in gravi difficoltà economiche. Grazie all’intervento dell’arcivescovo di Parigi, Constant ottiene un posto di sorvegliante al collegio di Juilly. Il salario è pessimo ed i superiori lo maltrattano: Constant per reazione scrive la "Bible de la Libertè", 1841.

Le copie furono sequestrate dopo un’ora dalla data di uscita del libro, era il 13 febbraio.  Molte copie furono nascoste alla censura, ma Constant fu arrestato il 1 aprile 1841. L’11 maggio si svolse il processo, e Constant viene condannato a 8 mesi di detenzione e ad un’ammenda di 300 franchi. Constant che non possiede i franchi necessari a pagare l’ammenda, deve scontare 11 mesi alla prigione di Sainte Pèlagie,  dove ritrova Esquiros e l’abbate di Lammenais. In carcere si cerca con tutti i mezzi di provocare il suicidio di Constant, accusandolo di essere una spia e mettendolo in cattiva luce di fronte agli altri detenuti. Constant, che passa il tempo nella consolazione della lettura, conosce così casualmente l’opera di Swedenborg. Grazie ai favori di una ricca amica, Mme Legrand, riesce a mitigare la durezza della sua detenzione e ad ottenere un’alimentazione più variegata. Grazie al cappellano di Sainte Pèlagie viene incaricato di pitturare i muri della chiesa di Choisy le Roi. Nel 1843 mentre abita nel presbiterio di Choisy, comincia a scrivere "La Mère de Dieu". Grazie alla sua condotta esemplare, il vescovo di Evreux s’interessa del suo caso ed è pronto ad intercedere per lui, a condizione che Constant adotti il cognome materno per non far capire che è l’autore di "Bible de la Libertè". Constant accetta e diventa quindi l’abate Baucourt, parte per Evreux, ed inizia a predicare, riscuotendo un grande successo e scatenando le gelosie degli altri chierici. Ma nel giugno dello stesso anno il sotterfugio viene scoperto. Il giornale L’Universo annuncia la morte dell’abbate Constant, informazione che viene subito smentita da un altro giornale, Il Popolare. L’Eco della Normandia, pubblica un articolo intitolato Il Nuovo Lazzaro,  in cui si svela l’identità e la vera storia dell’abate Baucourt. Monta lo scandalo, anche per la contemporanea uscita di "La Mère de Dieu", e Constant è costretto ad abbandonare il suo lavoro ed a ritornare a Parigi.

Nel frattempo rivede Tristan, che morirà un mese dopo, Constant s’interroga sull’opportunità di pubblicare un manoscritto di Tristan, che potrebbe causargli nuovi problemi con le autorità. Decide infine di pubblicare con il titolo "L’emancipation de la Femme ou le Testament de la Paria".

Nel 1844 si reca a Guitrancourt come educatore privato; ritornato a Parigi pubblica un manifesto pacifista ispirato a Silvio Pellico, "La Fête Dieu ou le Triomphe de la Paix Religieuse", 1845. In questo periodo Constant s’interessa attivamente al pensiero utopico di Foriér e Saint-Simon.  Nel 1845 scrive "Le Livre des Larmes", dove appaiono le prime nozioni sull’occultismo.

Si rivede con Adèle Allenbach, divenuta nel frattempo attrice.  Nel 1845, insieme a Charles Fauvety, fonda la rivista La Vérité sur toutes choses, che uscirà soltanto i primi quattro mesi. Ritorna ad Choisy le Roi dove aveva rincontrato nel 1843 Eugénie Chenevier, maestra all’Istituto Chandeau. All’Istituto soggiorna  pensione presso una giovane di nome Marie Noèmi Cadiot, molto amica di Eugénie. La domenica Constant accompagna spesso a passeggio le due giovani. Eugeniè accetta la proposta di matrimonio di Constant: la donna si era già donata a lui, ed era ora in attesa del primogenito Xavier Henri Alphonse Chevenier, 1846-1916. 

        

Eugénie Chenevier                                                              Alphonse Chevenier

Ma anche Marie Noèmi s’innamora  di Constant, e dopo un lungo carteggio appassionato, scappa di casa e si rifugia nella mansarda di lui. Constant per evitare la denuncia di sottrazione di minore, la fanciulla aveva allora appena 18 anni, è costretto alle nozze riparatrici. La famiglia di Marie Noèmi non aveva lasciato la dote alla figlia; i giovani sposi vivono quindi in una grave indigenza, che li costringe sovente a saltare i pasti e a nutrirsi soltanto di patate fritte

 

Dopo la pubblicazione di "Bible de la Libertè", viene impedito a Constant di esprimere il suo pensiero. Egli si rimette tuttavia a fare politica, su suggerimento di Noèmi. Decide di pubblicare su di un giornale il pamphlet "La Voix de la famine". Il 3 febbraio del 1847 è ancora condannato ad un anno di detenzione e al pagamento di un’ammenda di 1000 franchi. Noèmi, che nel frattempo è in stato interessante, chiede la grazia per il marito, e riesce a fargli avere una riduzione di sei mesi. Nel settembre del 1847 nasce Marie, che tuttavia morirà sette anni dopo, provocando un grande dolore a Constant e Noèmi.  Durante la rivoluzione del 1848 Constant dirige una rivista gauchista, "Le Tribun du Peuple", che non supererà i primi quattro numeri. Fonda un club politico, il Club de la Montagne. A giugno scoppiano le insurrezioni delle classi lavoratrici. Il 23 giugno del 1848, Constant rischia grosso: un mercante di vino, viene scambiato con lui, e fucilato in piazza. Constant prova a candidarsi senza successo come rappresentante del popolo all’Assemblea Nazionale: la spunta al suo posto Esquiros, e i due ex amici non s’incontreranno più. Constant scrive l’ultimo libro sulla politica, "Le Testament de la Libérte".

Intanto Noèmi scrive dei feuilletons letterari usando uno pseudonimo, ed incontra un discreto successo. Frequenta anche le lezioni di scultura di  Pradier, un’artista dell’epoca molto famoso. Constant ottiene delle commissioni dal Ministero dell’Interno. Constant legge la "Cabbala Denudata" di Knorr de Rosenroth, studia gli scritti di Boehme, Saint-Martin, Sweedenborg, Fabre d’Olivet. Nel 1850, l’abbate Migne, chiede a Constant di scrivere un dizionario della letteratura cristiana. L’opera esce nel 1851, suscitando un grande stupore per le profonde conoscenze dell’autore.  Alla fine del 1850, Constant conosce Hoenè Wronski, che era rimasto favorevolmente impressionato dal "Dictionnaire" e che lo indirizza alla matematica e al pensiero messianico. Comincia allora a lavorare al prossimo libro, "Dogme et Rituel de la Haute Magie", ed assume lo pseudonimo di Éliphas Lévi Zahed, traduzione ebraica di Alphonse Louis Constant.  Intanto Noèmi, che aveva iniziato una relazione clandestina con il cognato di Wronski, il marchese di Montfernier, lascia il marito. Constant accusa il colpo e cerca di dimenticare gettandosi a capofitto nei suoi progetti. Nella primavera del 1854 entra a far parte di una società rosacruciana, introdottovi dallo scrittore di romanzi fantastici sir Edward Bulwer Lytton. Su richiesta di un iniziato agli alti gradi, Éliphas si cimenta in una serie di evocazioni. Durante una di queste, gli appare lo spirito di Apollonio di Tirana, che gli indica Lourdes, come il luogo dove potrà trovare Nyctemeron, di cui aveva parlato in Dogme et Rituel de la Haute Magie. Éliphas Lévi si ripromette allora di non cimentarsi più nella magia operativa; quando in seguito avrà degli allievi, farà loro prestare dei giuramento di rinuncia agli esperimenti e di impegno esclusivo nella parte speculativa della filosofia occulta.  Nel frattempo Éliphas Lévi scrive a Eugénie Chenevier, che viveva a Londra, per chiedere notizie sul figlio che non aveva riconosciuto, ed anche per chiedere il perdono. Nell’agosto del 1854 Éliphas alloggia nell’atelier di un suo amico pittore, e finisce Dogme et Rituel de la Haute Magie, che esce alla fine dell’anno.

  

Nel 1855, fonda con Fauvety e Lemmonier la "Revue Philosophique et Religieuse", che cesserà le pubblicazioni dopo tre anni, su cui pubblica degli articoli sulla Cabbala. Éliphas però si mette di nuovo nei guai. Trascurando gli studi, scrive delle canzoni in cui paragona Napoleone III a Caligola.  Éliphas finisce di nuovo in prigione. Riesce subito ad uscire, perché scrive un’altra canzone in cui dichiara di non aver mai paragonato nessuno a Caligola; la fa leggere all’imperatore, che lo scagiona. Una volta uscito, continua a scrivere canzoni.  Il 1 gennaio del 1857, Éliphas ha un sogno premonitore,  che finisce con una strana frase: “vieni a vedere tuo padre che sta per morire”.  Éliphas non riesce a comprendere il senso di questo sogno, perché suo padre era ormai morto da molti anni.  Due giorni, dopo assiste tra la folla alla cerimonia d’inaugurazione della basilica di Sainte Geneviève a Sainte Etienne du Mont. Durante la cerimonia l’arcivescovo di Parigi viene assassinato da un prete interdetto. Éliphas leggendo sui giornali la descrizione dell’assassino, si ricorda di averlo incontrato una sera a casa di un’amica,  e che il prete omicida, gli aveva confidato che stava ricercando il grimoire di Honorius. Nel 1859 pubblica l’Histoire de la Magie, che riscuote un notevole successo e gli fa conoscere molti esponenti dell’esoterismo dell’epoca come Henri Delaage, Luc Desages, Paul Augez, Jean-Marie Ragon, Henri Favre, Fernand Rozier, il cartomante Edmond e l’ipnotizzatore Cahagnet

Il 14 maggio 1861 riceve l’iniziazione massonica. Dopo il rito, alla presenza di un grande numero di Fratelli, gli viene concessa subito la parola per spiegare l’origine cabbalistica del simbolismo massonico: tuttavia il tentativo non riscuote un grande successo. Nello stesso anno, Eugeniè e suo figlio ritornano a Parigi; Éliphas fa sapere alla madre che desidera occuparsi di suo figlio, ma finiscono per litigare per questioni economiche. Éliphas non rivedrà più Eugeniè, né suo figlio fino al momento della sua morte. Nello stesso anno pubblica "La Clef des Grands Mysteres".

Nel frattempo Éliphas continua le sue lezioni sulle scienze occulte, di fronte ad un grande numero di eruditi, appartenenti all’aristocrazia parigina; uno di questi è addirittura il vescovo di Evreux, Mgr. Devoucoux, a cui impartisce lezioni di Cabbala. Éliphas, grazie ai proventi della vendita del libro e delle lezioni, vive ora in una discreta condizione economica, che gli permette di acquistare numerosi libri. Insieme al conte Alexandre Branicki, si cimenta in qualche esperimento alchemico nel laboratorio del castello di Beauregard, a Villeneuve Saint Georges. Il castello era di proprietà di Balzac, ed Éliphas diventa così amico del genero della vedova. Il castello, dopo il saccheggio dei prussiani nel 1870, è stato adibito a municipio della città.  Nel maggio del 1861, ritorna a Londra accompagnato dal conte, soggiorna da Bulwer Lytton, che era arrivato ad essere a capo della Rosicrucian Society of England. Nel luglio del 1861, Éliphas conosce un suo importante estimatore, che diventerà anche il suo mecenate: il barone Spedalieri. Tra i due incomincia una fitta carteggio, più di mille lettere, che durerà fino al 14 febbraio 1874. Praticamente, si tratta di un corso sulla Cabbala per corrispondenza. Rientrato a Parigi, scrive "Le Sourcier de Meudon", dedicato a Madame de Balzac. Il 21 agosto 1861, la Massoneria gli conferisce il grado di maestro.  Durante la presentazione di un lavoro in Loggia sui misteri dell’iniziazione, viene confutato da un Fratello, il professor Ganeval. Éliphas, abituato ormai alla deferenza e a non essere contraddetto, lascia la Loggia e la Massoneria.  Falliti tutti i tentativi di fargli cambiare idea, nel 1865 la Loggia di Éliphas, intitolata Rose du Parfait Silence, cade interamente in sonno; e c’è chi - come Oswald Wirth -  vede nell’evento una relazione di causa effetto con l’abbandono di Éliphas. Constant, del resto, motiva la sua decisione con l’impossibilità di condividere la deriva anti-cattolica della Massoneria. Il 29 agosto del 1862 edita "Faubles et Symboles", opera essenziale sul simbolismo, in cui analizza nel dettaglio i simboli del pitagorismo, dei Vangeli apocrifi e del Talmud. 

Intanto frequenta i circoli dello spiritismo, più che altro per documentarsi sul fenomeno. Nel 1863 muore Louis Lucas, un chimico iniziato all’ermetismo e all’alchimia, discepolo di Wronski ed amico di Éliphas. Nel 1865, Éliphas scrive un nuovo libro sui simboli "La Science des Esprits". 

Nell’estate dello stesso anno, il suo editore gli chiede di scrivere un trattato sulla Cabbala. Éliphas si dedica a tempo pieno alla stesura di "Les Livre des Splendeurs", incentrato principalmente sulla qabbalah dello Zohar, che uscirà postumo. In questo periodo inizia a soffrire di forti emicranie. Nel 1870, essendo state interrotte le comunicazioni con la provincia, riceve con difficoltà i sussidi dai suoi allievi. Mentre presta servizio come Guardia Nazionale, gli viene diagnosticata una malattia cardiaca. Terminati i moti e le agitazioni comunitari, trova ospitalità da un’allieva, Mme Gebhard, che abitava a Elberfeld in Germania. Durante il soggiorno tedesco scrive "Les Portes de l’Avenir".  Ritornato a Parigi, apprende della morte della baronessa Spedalieri, che aveva gettato il marito in una forte crisi spirituale, facendolo diventare ateo e materialista. Nel dicembre del 1871, Éliphas scrive un libro su riti massonici: "Le Grimoire Franco-Latomorum". Nell’autunno del 1872, Noèmi, la sua ex-moglie, divenuta scrittrice e scultrice affermata, si risposa con un deputato di Marsiglia, candidato a diventare ministro del commercio. Intanto la salute di Éliphas continua a peggiorare. Soffre di una patologia cardiaca, che lo porta sovente a svenire; Éliphas crede di avere avuto, durante questi svenimenti, delle visioni estatiche. Nel novembre 1873, Judith Mendès, figlia di Gautier, si rivolge ad Éliphas per avere delle informazioni sulla Cabbala, che possano servire alla lavorazione del romanzo che sta scrivendo. Éliphas si reca a casa del padre della ragazza, a cui legge la mano predicendole grandi successi per l’avvenire. Il marito di Judith fa conoscere Victor Hugo ad Éliphas. Nel 1874, una bronchite persistente, unita a un gonfiore alle gambe, mette a dura prova la sua salute. Il 31 maggio 1875, Éliphas si spegne all’età di 65 anni. Seppellito al cimitero d’Ivry, nel 1881 i suoi resti sono riesumati e gettati in una fossa comune.                               

 

 

 

 

 

 

 

Sul Pensiero e l’Opera di Éliphas Lévi

                          

Eliphas Lévi fu un ricercatore dotato di una vastissima erudizione, che amava indossare le vesti del grande iniziato, senza decidersi tuttavia ad esserlo veramente. Se consideriamo, ad esempio, l’episodio dell’evocazione dello spirito di Apollonio di Tirana, con la conseguente rinuncia alla magia operativa formalizzata anche in un giuramento per gli allievi, così come il tentativo di minimizzare e non dare seguito al sogno premonitore, si ha l’esatta dimensione di un uomo che distillava le sue convinzioni più sui libri, di quanto non facesse nella vita quotidiana. Éliphas Lévi fu anzitutto un teorico, più che un operatore alla Crowley; e del resto la sua vicenda non è stata caratterizzata dall’interesse esclusivo per la philosophia occulta, ma piuttosto da variegate passioni che ne hanno contrassegnato l’evoluzione del pensiero. Dal sacerdozio all’occultismo, passando per la politica: un cammino esistenziale alquanto travagliato, più che una scelta di vita vera e propria. Éliphas Lévi, del resto non aveva alcun problema a mettersi nei panni dello studioso che assembla documenti ed informazioni variegate e disparate, perché era in grado di amalgamare ecletticamente nei suoi libri il profluvio dei dati. Egli aveva la mentalità del sincretista, ma non del sistematico: un tratto comune a molti, se non a tutti, gli occultisti moderni.

Il sincretismo di Éliphas Lévi appare chiaramente in un breve scritto dall’incerta datazione "Magia delle Campagne e Stregoneria dei Pastori" in cui egli disquisisce su come alcuni frammenti di antiche credenze pagano-cristiane siano confluiti nella forma del folklore e della superstizione rurale. L’analisi di Éliphas appare subito abbastanza incerta tra il soprannaturale e la spiegazione scientifica, ondeggia curiosamente senza mai prendere una risoluzione in favore dell’uno o dell’altra, ed alla fine tenta di conciliare tra di loro i due corni del dilemma. Possiamo intravedere queste difficoltà già nelle riserve con cui Lévi avvisa che queste formule ingenue e travisate dalla superstizione - simulacri deformati di un probabile antico sapere - possono non essere del tutto attendibili.  Salvo poi, quasi a compensare l’inattesa professione di scetticismo, affermare subito dopo che la loro efficacia dipende dalla fede dell’orante.  Non ci è dato sapere quindi, come la pensi davvero Éliphas Lévi, se il suo pensiero protenda verso una forma di realismo o di volontarismo magico. Il trattato si apre con una descrizione generica dei disturbi psicocinetici che colpiscono gli uomini delle campagne.

Nella solitudine, in mezzo al lavoro della vegetazione, le forze istintive e magnetiche dell’uomo aumentano e si esaltano, le forti esaltazioni degli umori degli alberi, l’odore dei fieni, gli aromi di certi fiori riempiono l’aria di ebbrezza e di vertigine; allora le persone impressionabili cadono facilmente in una specie di estasi che le fa sognare da svegli.

È allora che, secondo Lévi, uccelli notturni, lupi mannari e folletti, tormentano ripetutamente i contadini. Tuttavia, Éliphas Lévi ci ammonisce sull’attendibilità di queste visioni che “sono reali e terribili, e non bisogna ridere dei nostri vecchi contadini bretoni quando raccontano ciò che han visto”. Questi fenomeni sono causati, secondo Éliphas Lévi, da una sorta di magnetismo naturale, dovuto a turbini magnetici, che “operano prodigi simili a quelli dell’elettricità, come l’attrazione o la repulsione degli oggetti  inerti, delle correnti atmosferiche, nonché influenze simpatiche o antipatiche pronunziatissime (sic)”. È evidente, nel passo sopra riportato, l’influenza esercitata dal mesmerismo sul pensiero di Lévi. Il mesmerismo, lo studio del magnetismo naturale, era all’epoca una dottrina che cercava di darsi una parvenza di criteriologia sperimentale per essere accettata nelle Accademie. Riferendosi ad essa, Éliphas Lévi evidentemente si propone  di avallare le sue spiegazioni con le teorie di questa probabile nuova disciplina scientifica. Tuttavia, persistendo nella sua attitudine sincretista, non si limita ad un discorso scientifico, ma prova ad amalgamare il mesmerismo con il kardecismo e con delle suggestioni animistiche. Éliphas Lévi si sforza di articolare questa commistione adattandola alla gergalità scientifica dell’epoca, con il risultato di continuare nell’oscillazione interna alla dicotomia scienza-arcano, piuttosto che tentare di superarla nell’armonia di una qualsiasi Aufhebung pacificatrice.  Appare evidente il tentativo di Éliphas Lévi di conciliare il sovrannaturale con la scienza moderna. Del resto questo sincretismo è peculiare a tutti gli occultisti moderni;  ma è soprattutto con quelli del XIX secolo che si manifesta la propensione a dimostrare come queste teorie possano convivere con gli assunti della scienza, senza per questo uscirne ridimensionate o reinterpretate.

Per Lévi la causa di quelle strane malattie contagiose che colpiscono i greggi, deve essere ricercata nei “patti”, ricettacoli di malefici, orditi da pastori rivali e sotterrati nei pressi delle stalle che s’intendono colpire. Secondo Éliphas Lévi la scienza è adesso in grado di dimostrare la plausibilità di ciò che si riteneva mera superstizione. Tuttavia, se l’intento dell’autore è palesemente quello di superare la dicotomia scienza-fede, egli fallisce in pieno: non riesce ad elaborare una teoria plausibile e l’unico risultato che ottiene è quello di continuare nell’oscillazione alternata verso i due corni del dilemma. In altre parole, Éliphas Lévi non riesce a dare un fondamento scientifico alle superstizioni ed alle credenze, perché probabilmente non si cala fino in fondo nell’abito dello scienziato, finendo, viceversa, per ricadere sempre nel corto circuito dell’occultista che postula la conoscenza scientifica sugli assunti dell’immaginale o degli assiomi metafisici.  Ad esempio, sempre nello scritto sulla magia delle campagne, Lévi azzarda un tentativo di spiegazione scientifica sulla base dei postulati del mesmerismo, sostenendo che l’influenza magnetica dell’uomo, indirizzata dalla volontà, è in grado di attaccare qualsiasi oggetto, anche distante. Il risultato sarà tanto più favorevole quanto la volontà dell’uomo è addestrata ed esercitata specialmente ad impressionare l’immaginazione. Di fronte, a simili attacchi magnetici, gli animali non possono resistere a lungo, mentre il libero arbitrio umano può in ogni caso fungere da punto di resistenza. Sorprendentemente, nel passo successivo, Éliphas Lévi anziché continuare ad elaborare la sua teoria cercando di strutturarla secondo una qualche parvenza di scientificità, decide di sottrarsi alle difficoltà con una netta oscillazione verso il magico:

"Vediamo intanto come gli stregoni di campagna compongono i loro malefizi, veri patti con lo spirito di perversità, i quali servono di consacrazione fatale alla loro volontà malvagia. Essi formano un composto di sostanze che non si possono procurare senza colpe ed unire senza sacrilegio; pronunziano su questi orribili miscele delle formule di esecrazione e sotterrano nei campi del loro nemico o sotto la soglia della porta della sua stalla, questi segni di un odio infernale."

 

Éliphas Lévi ha appena introdotto una spiegazione della magia su basi scientifiche, ed adesso ripiega su termini come spirito di perversità, sacrilegio, orribili miscele ed odio infernale. Ha abbandonato il campo della ricerca scientifica per ritornare ad usare espressioni da romanziere gotico. Ciò non impedisce a Lévi di postulare che il padrone del gregge colpito possa ritardare l’attacco, qualora opponga una resistenza energica al magnetismo. A questo proposito è essenziale la concentrazione collettiva della volontà, ottenuta con l’aiuto dei vicini e degli amici della vittima. Se la cooperazione energetica riesce, il maleficio ritorna al mandante, che subisce, in questo caso, gli effetti dell’attacco da lui stesso ordito: l’unica salvezza è adesso il dissotterramento del “patto”.

A questo punto del trattato, Éliphas Lévi introduce repentinamente una digressione erudita, illustrando le tecniche utilizzate nel Medioevo per proteggere le stalle, tra le quali spicca la pratica del sale magnetizzato da esorcismi speciali. Éliphas non prova minimamente a cimentarsi in una qualunque spiegazione su come si ottenga la magnetizzazione del sale: si preoccupa piuttosto, a questo punto, di introdurre una serie di esorcismi, apparsa già nella Chiave dei Grandi Misteri, prodigandosi di ricordare come la trasmissione orale possa avere alterato le formule originarie.  Dopo aver riportato per esteso l’orazione denominata Il Castello di Bella, la compara con la formula originaria, non mancando di sottolineare il grado di alterazione ridicola dei “piccoli libri volgari di stregoneria e di pretesa magia che si osa ancora divulgare nelle campagne” . Tuttavia, immediatamente, ammonisce i falsi sapienti, ossia i moderni, di non ridere di “questi rustici incantatori”, che compivano le loro orazioni sul sale, perché:

"Essi sapevano bene quello che facevano e il loro istinto, diretto dall’esperienza, li guidava più sicuramente di quanto non avrebbe potuto farlo tutta la povera scienza di quel tempo. Oggi che la fede d’una volta si è affievolita nelle campagne, queste ingenue orazioni non hanno più potenza né prestigio". In questo passo possiamo cogliere un chiaro esempio del sincretismo di Lévi. Egli rivendica il valore della vivida fede in grado di trasmutare la materia, operando in questo caso sulla salute del gregge: un caposaldo del pensiero esoterico e magico. Ciò nonostante poco prima ha appena finito di stigmatizzare l’alterazione ridicola dei “piccoli libri volgari di stregoneria e di pretesa magia”. Se queste formule, recitate con vivida fede si rivelano efficaci, perché parlare allora di alterazione ridicola? Se l’effetto è raggiunto comunque, il grado di alterazione può essere rilevante per il filologo o l’erudito, ma non per l’occultista. Ossia l’alterazione riguarda casomai la forma letteraria della preghiera, non la sua valenza operativa. Éliphas Lévi manca del tutto quindi di una qualsiasi metodologia di studio; ma parimenti difetterebbe anche di concretezza empirica, nel caso ambisse a presentarsi come esponente della philosophia occulta, e non come un semplice studioso.

Nella Magia delle campagne e stregoneria dei pastori, l’occultista francese introduce una serie di preghiere da recitare per ogni giorno della settimana, non dimenticando, ancora una volta, di richiamare l’attenzione sulla semplicità delle formule. Éliphas Lévi conclude con il richiamo allo spirito di comunione rurale, il solo in grado di scongiurare i malefici; la stessa preghiera collettiva, per Lévi, è molto più efficace di quella singola, grazie alle correnti magnetiche che si formano all’interno della catena forgiata da un gruppo. Al contrario, l’individuo isolato è da sempre molto vulnerabile. Si devono evitare anche i malati cronici, perché portatori di energie negative; così come, del resto, è preferibile affidarsi a Dio, piuttosto che agli stregoni e agli indovini. È necessario, per Lévi, se si tiene alla salute del gregge, evitare l’evocazione dello spirito delle tenebre: per comandare le forze elementari è sufficiente possedere una grande rettitudine morale e uno spiccato senso della giustizia.  Compito dell’uomo è l’educazione dell’intelligenza e del libero arbitrio: con l’autocontrollo i grandi asceti del deserto riuscivano a comandare i leoni e gli orsi. Il trattato si chiude, infine, con un invito degno di un umanista illuminato, probabile retaggio della formazione politica dell’autore. Per Lévi il segreto per riuscire a proteggersi dai malefici, la vera cifra simbolica di ogni rito apotropaico, risiede nel giusto atteggiamento morale dell’uomo che rispetta la natura, lavora con scrupolosità, obbedisce alla ragione e sacrifica il proprio interesse egoistico alla giustizia. 

In Il Dogma dell’Alta Magia, Éliphas Lévi riconosce l’esistenza di una filosofia occulta che sarebbe la nutrice o madrina di tutte le religioni , di tutte le forze intellettuali, di tutte le oscurità divine.  Questa dottrina primordiale costituisce il tronco nascosto di tutte le sacre scritture e di tutte le iniziazioni, assurte così a ramificazioni particolari e contingenti dell’unico albero. Essa germina tutte le tradizioni iniziatiche e religiose dell’Egitto, dell’India brahmanica, della Grecia, della Persia; la conoscenza di questa dottrina rende gli adepti in grado di esercitare un controllo assoluto sulla materia: Lévi racconta che gli uomini che possedevano questo sapere erano in grado di uccidere o di fare impazzire chi si lasciava avvincere dal loro prestigio. Ritroviamo qui una delle idee caratteristiche, ancorché secondarie, dell’esoterismo occidentale. Tuttavia, Lévi non pensa, diversamente dai perennialisti, alla trasmissione di una verità trans-storica, perché la dottrina primordiale non è altro che la Cabbala,  arbitrariamente identificata con la scienza dei magi; la cui alleanza originale con il cristianesimo, è stata disconosciuta per paura ed ignoranza. Riconoscere questa concordanza significa, per Lévi, riuscire a conciliare la scienza con il dogma, la ragione con la fede. Del resto, sempre per Lévi, la visita dei re magi alla culla del Redentore confermerebbe questo primitivo sodalizio tra Cristianesimo e magia. Éliphas Lévi sostiene che le tracce di quest’alleanza possono essere ritrovate in due libri, che la Chiesa non riesce in fondo a capire, ma al contrario perfettamente intelligibili all’iniziato: l’Apocalisse e la Profezia di Ezechiele. Accenna, tuttavia, anche ad un terzo libro, occulto e popolare insieme ed ancora più antico di quello di Enoch, nel quale è racchiusa la chiave di tutti i misteri:

"Si, esiste un segreto formidabile, la cui rivelazione ha già rovesciato il mondo, come lo attestano le tradizioni religiose dell’Egitto riassunte simbolicamente da Mosè all’inizio della Genesi. Questo segreto costituisce la scienza fatale del bene e del male, è il suo risultato."

Si, esiste un dogma unico, universale, imperituro, forte come la ragione suprema, semplice come tutto ciò che è grande, intelligibile, come ciò che è universalmente e assolutamente vero, e questo dogma è stato padre di tutti gli altri  Éliphas Lévi identifica problematicamente questo segreto formidabile, questo dogma unico, universale, imperituro,  con una serie di rappresentazioni variegate appartenenti a contesti eterogenei: la materia prima della Grande Opera, il Corpo Igneo dello Spirito Santo, “adorato anche nelle cerimonie del Sabba o del Tempio, sotto la forma geroglifica del Bafomet, o del becco androgino di Mendes”. Ma per Lévi, questa chiave di tutte le allegorie magiche, interessa un gran numero di miti e tradizioni. La ritroviamo alla radice dell’opera di Ermete, dell’ordine del Toson d’Oro, dell’Orfismo, e persino del mito di Edipo. La colpa di Edipo è quella di aver ucciso la Sfinge, invece di dominarla; così come quella di Psiche è di aver guardato di nascosto il corpo di Eros, invece di persuaderlo a rivelarsi spontaneamente.  L’inganno e la violenza, precludono, secondo Lévi, al possesso della conoscenza; la quale deve, viceversa, essere padroneggiata armoniosamente e poi dissimulata:

"il grande segreto magico è dunque la lampada ed il pugnale di Psiche, il pomo di Eva, il fuoco sacro rubato da Prometeo, lo scettro ardente di Lucifero; ma è anche la Croce santa del Redentore. Conoscerne tanto da poterne abusare o da farsene divulgatore, è meritarsi tutti i supplizi; saperlo come deve essere saputo per servirsene e nasconderlo, è essere maestri dell’ASSOLUTO".

Éliphas Lévi, dopo aver fatto sfoggio di erudizione ed aver citato diversi miti come forme distinte e riconducibili all’unico segreto, senza peraltro essersi scomodato ad impostare il minimo straccio di dimostrazione, rivela che il libro che “riunisce tutto il genio filosofico e il genio religioso”, “tesoro cinto di spine, diamante nascosto”, non è altro che il Talmud. Il Pentateuco, in realtà, è solo un libro elementare; è solo nel Talmud che si nasconde “la vera filosofia segreta e tradizionale [...] scritta solo più tardi, sotto veli meno trasparenti ancora. Così nacque una seconda Bibbia sconosciuta o almeno incompresa dai cristiani”. In questo libro, sempre secondo Lévi, si nascondono le chiavi di lettura della vera Cabbala, che si troverebbe alla base delle religioni e della scienza; nella Cabbala si concilia l’alleanza della ragione con il Verbo e la fede, “il potere con la libertà, la scienza col mistero, essa ha le chiavi del presente, del passato e dell’avvenire”.

Secondo Éliphas Lévi, dunque, la Cabbala è il principio e la radice di tutti i rami della conoscenza; la sua padronanza garantisce il superamento dell’aporia ragione-fede. Tuttavia l’occultista francese non riesce a sviluppare le sue asserzioni all’interno di un’esposizione articolata; ed in quest’introduzione dobbiamo accontentarci di intravedere, soltanto, le rivelazioni che Lévi sembra prometterci. In effetti, sembra che l’autore cerchi letteralmente di aumentare la suspense e le aspettative del lettore: ad ogni asserzione, Lévi fa seguire un’immancabile digressione erudita.

Finalmente, nel primo capitolo "L’Iniziando", inizia l’esposizione teoretica vera e propria. Lévi incomincia contestando la validità del cogito cartesiano. Anziché principiare dal  “Cogito, ergo sum”, sarebbe preferibile farlo dall’“Ego sum qui sum”, con cui inizia la rivelazione divina nell’uomo. Quest’ultima è la manifestazione della ragione universale a quella umana, è il trait d’union in grado di realizzare l’Uomo-Dio.  Secondo Éliphas Lévi non ha senso sostenere con Descartes che l’autocoscienza si produce dalla certezza di pensare, perché da quest’ultima scaturisce piuttosto la dimostrazione dell’esistenza dell’Essere superiore. Dunque il Verbo divino regala la scintilla del pensiero razionale all’uomo, ma nello stesso tempo gli si rivela come suo fondamento. Lévi dunque risale all’esistenza di una Causa prima aristotelica, ma elabora una serie di teorie del tutto estranee al pensiero dello stagirita. Per Lévi il Verbo è il velo dell’essere, identificato con l’idea platonica del principio anipotetico (idea della Verità assoluta, assolutamente indimostrabile). Ma la forma è, sempre per Lévi, a sua volta il velo del Verbo; quindi l’idea (essere) è la madre del Verbo e la ragion d’essere della forma. Il velo simboleggia qui la dissimulazione della realtà segreta; per converso lo svelamento equivale alla rivelazione, alla conoscenza. Per Lévi è quindi l’idea a strutturare la forma, secondo il principio delle corrispondenze espresso dalla Tavola Smeraldina “Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, ciò che è in basso è come ciò che è in alto”. La forma è dunque proporzionale all’idea, dato che quest’ultima è la matrice del Verbo e del mondo formale e materiale. Il fodero è in proporzione con la lunghezza della lama, la negazione con l’affermazione, la produzione con la distruzione, l’ombra del corpo con l’intensità dei raggi luminosi. Ma se è vero che possedere l’idea significa plasmare la forma, allora in virtù della rivelazione del Verbo divino “Sono colui che sono”, l’uomo deve avere il potere latente di padroneggiare l’immaginazione che forgia la materia. Grazie al Verbo, l’uomo può rendere la propria immaginazione in grado di vivificare le forme, arrivando - sempre secondo Lévi - a guarire le malattie, influenzare le stagioni, risuscitare i morti.

Quindi se l’immaginazione è in grado di ricollegare il pensatore all’idea suprema, o se si preferisce all’essere, per Lévi è evidente l’unità di una sola ragione, di una sola filosofia. Questo principio unico che Lévi chiama “Dogma”, non è altro che l’identità tautologica dell’essere con se stesso, che si concretizza in una metafisica monista. Il divenire, i fenomeni visibili diventano allora manifestazione dell’invisibile. Il principio supremo che determina gli enti transeunti, nel suo "Dogma dell’Alta Magia", è in altre parole l’identità autoreferenziale dell’essere. Su come possa realizzarsi questa determinazione del visibile assumendo il postulato del circolo vizioso dell’identità che contempla se stessa, non ci viene fornita, per il momento, alcuna delucidazione teoretica: ma è verosimile pensare che Éliphas Lévi dovesse conoscere l’idealismo tedesco, la filosofia di Fichte, Hegel, Schelling. Infatti, continuando nella nostra lettura, il secondo paragrafo dopo essersi aperto con la curiosa distinzione tra scienza e gnosi - il possesso completo della verità concerne solo la scienza, mentre alla gnosi è riservata solo un’intuizione priva di conoscenza effettiva - Éliphas entra   timidamente nel dettaglio e mostra di possedere qualche rudimento sull’idealismo. Conoscenze acquisite probabilmente nel periodo giovanile degli studi in seminario; a questo proposito si deve rammentare l’enorme impatto dell’idealismo, specialmente del pensiero di Hegel, sulla teologia e la filosofia della religione. Tuttavia, alla presunta conoscenza della dialettica hegeliana, si deve aggiungere anche la più sicura padronanza di Lévi della teoria cabbalistica sull’emanazione delle Sefirot. Tutte e due i sistemi di pensieri, dialettica hegeliana e Cabbala, forniscono una spiegazione di come possa scaturire dall’identità la differenza - ossia gli altri numeri dall’uno - senza trascurare nemmeno la possibilità che Lévi avesse letto Fichte, autore, tra l’altro, come lui legato alla Massoneria. Purtroppo per il momento, in assenza di ulteriori informazioni, non è possibile svelare con certezza quali siano state le fonti filosofiche di Éliphas Lévi, e siamo costretti a muoverci sul terreno delle ipotesi; fermo restando la certezza della sua competenza cabbalistica. 

Lévi si addentra quindi all’interno della numerologia cabbalistica. La conoscenza suppone, per Lévi, il rapporto binario conoscente/conosciuto. L’unità che crea si moltiplica per se stessa producendo il binario, così come Eva si genera dal petto di Adamo. Quest’ultimo è rappresentato dalla singola lettera Jod, mentre il nome Eva ne contiene tre. Jehova si genera allora dall’unione di Adamo, Jod, ed Eva: anzi per Lévi sarebbe più corretto pronunciare il nome di Dio come Ieva, così composto da quattro lettere. La trascrizione cabbalistica del nome di Dio, è il tetragramma divino, parola magica per eccellenza. Ne deriva, per Éliphas Lévi, che il numero quattro è la chiave di tutti i numeri e di tutte le forme. Éliphas Lévi arriva a questa conclusione soffermandosi prima sul binario - da lui identificato con le colonne del tempio e la gnosi - e poi sul ternario, raffigurato dal triangolo di Salomone e dalla physis. Lévi richiama una serie di sistemi dicotomici uomo/principio/attivo/unità/Bohas/Yang - donna/Verbo/ passivo/Jakin/Yin esprimenti l’ambivalenza del fenomenico, e ricorda come tutto sia essenzialmente un gioco tra un principio attivo ed uno passivo. Tutto è riconducibile a questi due principi, determinati dalla necessità e libertà dell’unità divina creatrice. L’unità ha bisogno di estrinsecare dalla propria indeterminatezza un elemento contrapposto da superare, il progresso del divenire è la risultante di questo superamento dialettico infinito: “ in Dio il binario esiste solo per mezzo del ternario; se concepite l’assoluto come dualità, è necessario immediatamente concepirlo come trinità, per ritrovare l’unità ”.

Il Ternario, dunque per Éliphas Lévi, è l’immagine stessa della perfezione del cosmo, perché presuppone “ un principio intelligente, un principio parlante ed un principio parlato ”, in altre parole il Creatore, il Cosmo, il Verbo; o ancora la Persona che parla, quella a cui si parla, e quello di cui si parla: “ L’assoluto, che per mezzo della parola si rivela, le dà un senso a lui eguale e nell’intelligenza di questa parola crea un terzo se stesso ”. L’importanza del ternario è simboleggiata dal Triangolo di Salomone,  secondo le due varianti con il vertice in alto e la base in basso, e viceversa; la sintesi di questi due triangoli forma la Stella di David. L’emanazione del Principio che crea, trasmettendo se stesso a se stesso, è anche, sempre secondo Lévi, alla radice del mistero trinitario. Ciò che è trino è Uno, ma è trino per la necessità di creare; tuttavia se è vero che il binario è generato dall’Uno, deve giocoforza possedere la stessa essenza divina: quindi, la Trinità esprime e racchiude il cerchio perfetto della creazione come sintesi dei due momenti. Del resto, sempre per Lévi, anche le leggi dell’attrazione sessuale esprimono la necessità di generare il tre attraverso l’unione delle singole unità. Il ternario è la rappresentazione della forza universale dell’amore che vuole riprodurre la vita attraverso se stessa:

" l’unità per divenire attiva deve moltiplicarsi. Un principio indivisibile, immobile ed infecondo, sarebbe l’unità morta ed incomprensibile. Se Dio non fosse che uno, non sarebbe mai creatura né padre; se fosse due vi sarebbe antagonismo o divisione nell’infinito, e sarebbe la ripartizione o la morte di ogni cosa possibile: è dunque trino per creare egli stesso e a sua immagine la moltitudine degli esseri e dei numeri. Dunque il tre è espressione dell’amore universale e divino, perché si pone come sintesi armonica tra i contrapposti. Ma tre sono anche, sempre per Lévi, i piani metafisici del reale, gerarchicamente ripartiti in un piano fisico, in uno spirituale ed in uno divino.  Tutto possiede un triplice senso, tanto le azioni quanto le idee " ; così Éliphas Lévi svela che il vero dogma fondamentale del Cristianesimo non è altro che questo principio ternario della Cabbala, in grado di ristabilire l’unità conciliando armonicamente il dualismo apparente. Il mistero della Trinità è spiegato attraverso il ternario cabbalistico; ed in particolare nella formula del Vangelo secondo Marco: “ Poiché tuo è il regno e la potenza e la gloria in sempiterno ”, si cela sinteticamente  la chiave fondamentale.

Éliphas Lévi dimostra qui una certa carenza di analisi, o perlomeno una buona dose di ingenuità. Lévi  tralascia o finge d’ignorare quello che aveva precedentemente asserito, e cioè che il dogma fondamentale  non è altro che l’identità tautologica dell’essere con se stesso, per aggiungere invece adesso che si tratta del principio ternario. Non sussisterebbe nessuna difficoltà, se solo si soffermasse a spiegare come il divenire triadico coincida con l’evoluzione del principio identitario, che vuole sfuggire all’autoreferenzialità. Ma ogni qual volta che le circostanze del discorso richiedono il ricorso all’analisi teoretica, Lévi si sottrae e preferisce continuare a divagare con osservazioni erudite. Così troppo spesso Lévi si accontenta di accennare, ed il senso deve mettercelo il lettore. Un altro limite dell’occultista francese è che usa gli stessi termini con significati diversi a seconda del contesto, senza preoccuparsi di specificare ogni volta quale sia il senso  semantico. Ad esempio, Lévi ha usato ripetutamente il termine “dogma”, attribuendogli due diversi significati - la tautologia dell’essere ed anche  il principio ternario - tuttavia il significante rimane pur sempre uno “dogma”. Senza nessuna spiegazione, leggiamo alla fine del capitolo che il dogma si è triplicato: “     la virtù segreta degli evangeli è dunque contenuta in tre parole e queste parole hanno fondato tre    dogmi e tre gerarchie ” . È questo un esempio significativo sulla genericità semantica in cui sembra incorrere l’autore francese, perché sarebbe stato più corretto asserire, in base a quanto egli stesso aveva finora scritto, che il principio ha tre emanazioni, o che il dogma si estrinseca in tre dogmi secondari. Lévi invece sembra non curarsi di queste sottigliezze, né tantomeno di fornire spiegazioni.

Éliphas Lévi dopo essersi soffermato sull’importanza del principio triadico, introduce ora il tetragramma, descritto come l’addizione dell’idea dell’unità al ternario:

" Vi sono nella natura due forze che producono un equilibrio, e le tre non sono che una legge sola. Ecco come il ternario si riassume nell’unità, e aggiungendo al ternario l’idea d’unità, si giunge al quaternario, primo numero quadrato e perfetto, fonte di tutte le combinazioni numeriche e principio di tutte le forme ". Anche questo passaggio è molto confuso. Lévi non spiega la ragione per cui alle tre forze - i contrapposti più la risultante - si dovrebbe aggiungere l’idea dell’unità; o forse è preferibile ipotizzare che egli tenta di abbozzare una spiegazione che, purtroppo per lui, non convince. Infatti, Lévi, ritornando sul mistero della Trinità, aggiunge che le tre Persone sono emanazioni o manifestazioni dell’unico Dio; ma da quest’argomento ne trae una conclusione alquanto bizzarra: “ Tre ed uno danno l’idea del quattro poiché l’unità è necessaria per dare spiegazione del tre ”. L’eventualità che le tre Persone siano equivalenti all’Unità, non comporta certamente che il numero delle stesse debba incrementarsi, perché l’Uno è solamente la risultante di un rapporto intrinseco alla Trinità e non un’essenza spirituale o metafisica.  Così come è discutibile la sua argomentazione che     “ l’affermazione dell’unità suppone il numero quattro, se l’unità non rientra in se stessa come in un circolo vizioso. E pure il ternario, come già detto, si spiega col binario e si risolve col quaternario ”; o anche, “ la parola perfetta, quella che è adeguata al pensiero che esprime, contiene sempre virtualmente o suppone un quaternario: l’idea e le sue tre forme necessarie e correlative, poi l’immagine della cosa espressa con i tre termini del giudizio che la qualifica ”. Éliphas Lévi, insomma, cade vittima di un realismo infantile che gli fa scambiare dei semplici rapporti logici per delle entità ideali. Del resto, questi non sono i soli esempi delle difficoltà che Éliphas Lévi incontra quando si cimenta nelle sue speculazioni. Continuando nella sua dissertazione sul tetragramma, egli repentinamente enuncia che “due” affermazioni rendono necessarie “due” negazioni. Secondo quanto l’autore francese ha finora spiegato, non ci sarebbe stato nulla da eccepire se si fosse limitato a sostenere che un’affermazione rende necessaria una negazione. Non si capisce, viceversa, le ragioni di quest’arbitrario raddoppio dei contrapposti, se non con la motivazione di inventarsi una giustificazione metafisica al quaternario.

Rimane il fatto, che l’impianto teoretico del Dogma dell’Alta Magia è alquanto lacunoso e sfilacciato.

La profezia cristiana, per Lévi, è segnata da quattro tappe. La prima, segna la venuta di Cristo e la disgregazione del politeismo; la seconda, prevede l’avvento dell’Anticristo; la terza, la caduta dell’Anticristo e il ritorno della virtù cristiana nell’Occidente; la quarta e definitiva, il secondo avvento di Cristo ed il giudizio finale. Non ci sarebbe nulla da obiettare, se Lévi non se ne uscisse con questo sbalorditivo passaggio: “ questa quadruplice profezia contiene, come è possibile costatare, due affermazioni e due negazioni, la idea di due rovine o morti universali e di due rinascite ”. Secondo Lévi, dunque la terza fase sarebbe in tutto e per tutto negativa al pari della seconda. Anche ipotizzando l’eventualità, alquanto remota, che Lévi durante la sua vita sia venuto in contatto con qualche nuova religione millenaristica dell’area giudaico-cristiana, si dovrebbe in ogni caso costatare come nessuna di queste abbia mai descritto la terza fase come negativa o “rovinosa”, ma tutt’al più come “aurora” e preludio dell’avvento del regno di Dio sulla terra.

Anche la vita umana è segnata, per Lévi, da tre (quattro) fasi, la nascita, la vita, la morte e l’immortalità. Seguono una serie di considerazioni dalla chiara impronta “parmenidea”, in cui Éliphas Lévi sostiene che  “ la nascita prova la preesistenza dell’essere umano, giacché nulla nasce dal nulla, mentre la morte prova l’immortalità, giacché l’essere non può cessare d’essere più che il nulla non possa cessare di non essere ”. Éliphas Lévi continuando a saltare da un argomento all’altro, nel suo tipico stile farraginoso, arriva, infine, ad una quadripartizione degli elementi magici e degli spiriti elementari. Prendendo spunto dalla conformazione di una croce, al nord sono collocati l’azoto, l’aquila, l’aria; ad ovest, il mercurio, l’uomo, l’acqua; a sud, il sale, il toro, la terra; ad est, lo zolfo, il leone, il fuoco. L’aria e la terra, poiché sono sull’asse verticale rappresentano il principio maschile; il fuoco e l’acqua, su quello orizzontale, il femminile. Segue la comparazione degli elementi alle quattro “idee” filosofiche spirito, materia, moto, inerzia, che l’alchimia riduce a tre assoluto, l’immobile, il volatile. " Compito degli spiriti creati è ricercare e rimanere sul centro della croce, punto d’equilibrio statico della libertà dalle passioni. Viceversa, chi oscilla incessantemente tra le quattro estremità della croce è destinato a rinascere in vite animali o demoniache. Gli uomini viziosi sono dunque condannati a reincarnarsi in silfidi, ondine, gnomi, e salamandre." Finalmente Lévi riesce ad elaborare un sistema immaginale che non contrasta palesemente con le tradizioni mitiche, o con quanto da lui stesso precedentemente scritto. Esiste un “centro” che è il topos della temperanza e dello spirito, cui si contrappongono i quattro vertici cardinali, interpretati come raffigurazioni delle passioni estreme e del caos. Tutto questo può essere filosoficamente discutibile, ma trova riscontri culturali all’interno della storia delle credenze religiose o delle correnti esoteriche occidentali. Ed il nostro scopo non è certamente quello di verificare ontologicamente la dottrina di Éliphas Lévi, ma di approntarne l’analisi storico-critica, relativamente al contesto culturale e al pensiero espresso dall’autore. 

Con il pentagramma, per Éliphas Lévi, si passa dalla teoria all’empiria. Il pentagramma permette di dominare gli elementi e i demoni dell’aria, gli spiriti del fuoco, ecc. Il passaggio dal tetragramma al pentagramma è ottenuto dall’aumento di un’unità; ma diversamente da quello dal ternario al quaternario ha un senso e un significato sotteso al dominio degli angeli e dei demoni. Il fine empirico giustifica, quindi, la presenza del pentagramma, e non costringe Lévi ad arrampicarsi sugli specchi con improbabili speculazioni illogiche.  Il pentagramma è dunque uno strumento con il quale l’iniziato può sviluppare il controllo della forze della natura, ma anche l’ occhio dell’anima. Partendo dalla raffigurazione del pentagramma, Lévi enuncia una serie di postulati sul corpo grossolano e sulla perfetta adeguatezza dell’anima a percepire gli enti spirituali. Facendo propri gli assunti orfici e pitagorici sulla dicotomia anima/corpo, Lévi ripropone l’immagine del corpo come “scorza” dell’anima. Il corpo grossolano non è adatto a percepire le “cose” dello spirito, ma soltanto l’anima potenziata dallo sviluppo dell’immaginazione è in grado di percepire la verità e di distinguerla dall’illusione. Soltanto l’immaginazione “ diafana ” dell’adepto può percepire la luce cristallina della verità, viceversa nel “volgo” essa arriva “ piena di scorie e di impurità ”.   L’iniziato deve quindi riuscire a distinguere i raggi diretti della verità, dai meri riflessi che provocano sogni ed illusioni: è evidente in questa concezione il  richiamo al mito della caverna di Platone. Il profano, come il prigioniero della caverna, non può vedere altro che delle ombre riflesse, simbolo del fenomenico; soltanto la risalita alla superficie assicura la possibilità di osservare direttamente le cose alla luce del sole, senza doverle più scambiare per riflessi ed ombre.

Per Lévi, la luce primordiale, emanando le forme dalle idee, trattiene i riflessi delle prime e costituisce la luce astrale - il “grande agente magico” - sul quale si può esercitare il potere del pentagramma. La luce emana le idee divine, ma non può fare a meno di alterarle ed appannarle, mentre queste attraversano i tre piani metafisici dell’essere. Le forme alterate delle idee originali s’imprimono come riflessi sulla luce astrale - ma data la corrispondenza originale delle forme all’idea - padroneggiare le prime vuol dire influire attivamente sulle seconde.  L’attività onirica, per Lévi, è il risultato della luce astrale; nel sogno lucido si può riuscire a controllare le immagini, altrimenti vaghe ed incoerenti, ed imparare ad esercitare il potere dell’immaginazione sulla luce astrale. Il magnetismo animale è quindi una sorta di sonno artificiale indotto da una volontà esterna sul sognatore. Riuscire nell’arte magica, per Lévi, significa riuscire ad autoindursi e a controllare questo stato di sonno magnetico, che ha la sua perfezione nel potere della chiaroveggenza,  Mag? ... La storia delle religioni ha per molto tempo speculato sull’importanza del  sogno come origine del fenomeno religioso; in particolare questa teoria ha costituito la fortuna della cosiddetta  scuola “animistica”, senza dimenticare il rilievo conferito ai livelli di coscienza nelle dottrine orientali, ad esempio nelle Upanisad. Lévi quindi si appoggia alle teorie scientifiche dell’epoca - ma assecondando la sua mentalità sincretista - non esita ad incrociarle con gli assunti della philosophia occulta. È il pentagramma che assicura, sempre per l’autore, il dominio della volontà sulla luce astrale. Il pentagramma garantisce la signoria sugli spiriti, sia durante lo stato di sonno che di veglia. Il pentagramma è però anche in grado di “ misurare le proporzioni esatte del grande ed unico atanor necessario alla formazione della pietra filosofale e al compimento della Grande Opera ”. In altre parole, il pentagramma dona all’adepto la facoltà di controllare le forze oscure e spirituali del mondo sensibile. Ma, al contempo, per dominare queste entità si deve riuscire a resistere alle forze della natura. Per Lévi solo lo smascheramento dell’illusorietà dei riflessi della luce astrale, permette di sfuggire al giogo delle forze brutali della materia. A questo proposito, l’autore distingue la luce umana, da quella astrale e dal magnetismo universale. La luce umana, secondo Lévi, deve essere subordinata all’intelligenza, sottomessa all’immaginazione e fatta dipendere dalla volontà. Quando questo realizza, si produce l’interrelazione del macro-microcosmo, e l’operatore che assorbe nello spirito e nel corpo gli umori dell’ambiente,  irradia contemporaneamente all’esterno i suoi miasmi e le sue molecole invisibili. L’attrazione amorosa si produce proprio quando due individui di sesso opposto interagiscono tra di loro e all’attrazione dell’uno corrisponde l’espansione dell’altro. Da questa sorta di sinapsi emotiva si realizza allora il sentimento dell’amore, che genera quell’ebbrezza e quello stordimento, che il mago - maestro dell’autocontrollo - deve categoricamente fuggire. Lévi raffigura la luce astrale con l’immagine del serpente della Genesi, il seduttore universale, “ sempre sovrabbondante di vigore, sempre fiorito di sogni seducenti e di dolci immagini […] forza cieca per sé stessa e sommessa a tutte le volontà ”. La luce astrale è lo strumento della vita e dell’essere, il torrente delle pulsioni animali, il nemico da sconfiggere con l’iniziazione. Proprio perché la luce astrale con i suoi riflessi sollecita gli istinti bestiali ed il caos, essa ottenebra l’intelligenza umana che non può scrutare la fiamma della sapienza divina. Per Lévi all’iniziazione spetta il compito di restaurare l’ordine corretto di tutte le cose; ma all’iniziato sono indispensabili la tranquillità del cuore e dello spirito, così come una volontà inflessibile. Ma la temperanza non deve essere ricercata esclusivamente nell’interiorità dell’adepto: un certo equilibrio oggettivo è indispensabile alla buona riuscita delle operazioni magiche. Il senario cabbalistico esprime l’equilibrio magico che si realizza quando la libertà dell’uomo si coniuga con la volontà di Dio. Per Lévi la libertà dell’uomo ha senso solo se asseconda il volere divino; sono stati versati fiumi d’inchiostro dai filosofi di tutte le epoche per risolvere l’annoso problema della libertà umana e della predestinazione divina. Tuttavia Lévi si infila volutamente e maldestramente in un’aporia quando definisce l’onnipotenza come “ la libertà più assoluta, che non può esistere senza un perfetto equilibrio ”.  Prescindendo da quest’ultima ingenuità, l’equilibrio magico di Lévi si concretizza nel presupposto dell’esistenza di un’armonia cosmica, in cui tutto quello che accade trova un senso, un significato. L’idea di una corrispondenza universale, espressa dalla Tavola Smeraldina, trova qui la sua estensione morale in una teogonia.  Per Lévi, il sette è il numero cabbalistico, che meglio di qualunque altro, esprime la realizzazione della concordia cosmica, in quanto formato dall’unione del ternario e del quaternario. Sette sono i pianeti che dominano il tempo dell’esistenza umana: il Sole infanzia, la Luna adolescenza, Marte e Venere prima giovinezza, Mercurio virilità, o seconda giovinezza, Giove età della maturità, Saturno vecchiaia. I Pianeti  corrispondono ad angeli, colori, note musicali, animali: tutti classificati in sette unità. Il sette è dunque, secondo l’autore francese, il numero magico per eccellenza - indipendentemente da tutta la magniloquenza usata nella descrizione dei numeri precedenti - imputabile forse alla scarsa capacità di analisi ed allo stile eccessivamente enfatico dell’esposizione.

Il numero otto è invece per Lévi il segno della realizzazione; perché nella philosophia occulta non esistono dottrine o rituali veridici nella teoria, che non lo siano anche nella prassi. La verità di una pratica è definita dalla sua applicabilità empirica. Nella magia, ciò che non si realizza non è. Tutto era stato originariamente creato da Dio per l’uomo: la stessa luce astrale, prima di diventare la sorgente dell’illusione sottesa al mondo fenomenico, era lo strumento dell’onnipotenza di Adamo. Dopo il peccato originale la luce astrale ha iniziato ad intorbidirsi ed a riflettere i riflessi impuri delle immagini primordiali. Cristo stesso, sempre secondo Lévi, identificava la luce astrale con Satana, portatore delle tentazioni del mondo, e predicava la grazia come mezzo mistico per rinnovare il fluido vitale dell’uomo. I riflessi impuri della luce astrale generano fantasie insane o pulsioni viziose negli uomini, che a loro volta mediante i respiri magnetici contribuiscono ad ammorbare ancora di più l’ambiente circostante. L’anima è come una spugna che assorbe gli influssi dell’atmosfera morale ed espunge le proprie fantasie proibite. Tutto ciò che noi facciamo, o pensiamo, resta marcato nella luce astrale ed influenza costantemente non solo il nostro destino, ma anche quello di chi ci sta vicino.  Ecco perché secondo Lévi nel Cristianesimo riveste una grande importanza il perdono, mentre lanciare maledizioni è una cattiva azione. L’impopolarità non è altro che una somma di respiri magnetici ostili, che prima o poi non mancherà di produrre effetti concreti danneggiando gravemente o mortalmente il diretto interessato. Le maledizioni e le benedizioni si tramutano quindi in correnti astrali in grado di uccidere o aiutare l’oggetto su cui sono dirette. La luce astrale, sempre per Éliphas Lévi, ha anche un’altra importante funzione: al momento della concezione dell’anima, essa - combinandosi con i fluidi sottili - contribuisce alla formazione del corpo fluidico o corpo siderale. Alla morte del corpo fisico, quello siderale trattiene con sé i residui della vita passata, ed in caso di evocazione spiritica usa gli stessi per manifestarsi ai viventi. Durante la vita anche il corpo siderale, è sottoposto alle suggestioni dei riflessi astrali, alle loro attrazioni e repulsioni; secondo Lévi non necessariamente il corpo siderale è dello stesso sesso di quello terrestre: quest’eventualità spiegherebbe, secondo Lévi, la psicologia degli omosessuali. Ovviamente, per Lévi, l’iniziato è al riparo da questi rischi, perché ogni elemento in lui è perfettamente armonizzato con il tutto. Tre sono i simboli dell’iniziazione: la lampada di Trismegisto, il mantello di Apollonio e il bastone dei Patriarchi, che simboleggiano rispettivamente la luce del sapere, la reticenza mistica, il potere.

Nel discorso un pò sfilacciato del Dogma, Lévi non manca di mettere in relazione la Cabbala con i Tarocchi. Le dieci Sefirot e i ventidue Tarocchi formano le trentadue vie della scienza assoluta,  le scienze particolari sono simboleggiate, sempre per Lévi, da cinquanta porte. L’associazione delle Sefirot: Keter, Chokhmah, Binah, Chesed, Geburah o Din, Tiferet, Netsah, Hod, Jesod, Malkut con i ventidue Arcani Maggiori:  Il Giocoliere o Bagatto, La Papessa, L’Imperatrice, l’Imperatore, il Papa, gli Amanti, il Carro, la Giustizia, l’Eremita, la Ruota, la Forza, l’Appiccato, la Morte, la Temperanza, il Diavolo, la Torre, la Stella, la Luna, il Sole, Il Giudizio, il Mondo, il Matto, non può del resto compiersi perfettamente - vista la disparità numerica tra le due serie - ma può riguardare soltanto i primi dieci arcani: Keter, o Corona con il Bagatto; Chokhmah o Sapienza con la Papessa; Binah o Intelligenza con l’Imperatrice, ecc.. Per superare quest’inconveniente, Lévi associa agli Arcani Maggiori tredici chiavi cabbalistiche e nove credenze autorizzate dalla religione ebraica, che non sarebbero altro che trasposizioni “dogmatiche” delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico. Éliphas Lévi non compie in questo senso un’operazione del tutto nuova alla letteratura cabbalistica. Per comprendere il significato autentico delle Scritture, la Cabbala fa sovente uso di tecniche e metodi complessi, che si propongono di estrapolare un significato mistico dalle lettere dell’alfabeto ebraico e di attribuirgli un valore numerico. Così al Giocoliere o Bagatto corrisponde il primo dogma “Tutto annuncia una causa attiva, intelligente”; alla Papessa il secondo “Il numero serve di prova alla vivente unità”. All’Imperatrice “Nulla può limitare ciò che tutto contiene”; all’Imperatore “Solo, prima di ogni principio, è dovunque presente”. Per il Papa “Poiché è il solo padrone, è il solo che si deve adorare”; per gli Amanti “Ai cuori puri rivela il suo dogma”. Per il Carro “Occorre un solo capo alle opere della fede”; per la Giustizia “E' per questo che noi abbiamo un solo altare, una sola legge”. All’Eternità “Mai l’Eterno cambierà la base”; per la Ruota “Regola ogni fase dei cieli dei nostri giorni”. Alla Forza  “Ricco in misericordia e potente per punire”; all’Appiccato “Promette al suo popolo un re nell’avvenire”. Per la Morte “La tomba è passaggio alla terra novella, la morte è un fine, la vita è immortale”; alla Temperanza “Il buon angiolo è quello che calma e tempera”; per il Diavolo “Cattivo lo spirito d’orgoglio e la collera”; alla Torre “Dio comanda al fulmine e governa il fuoco"; Per la Stella “Vespero e la sua rugiada obbediscono a Dio”; per la Luna “Egli mette sulle nostre torri la Luna in sentinella”. Per il Sole “Suo Sole è la sorgente ove tutto si rinnovella”; per il Giudizio “Il soffio fa germogliare la polvere dei sepolcri”; Per il Mondo “Ove i mortali scendono a greggi senza freno”; per il Matto “La sua corona ha coperto il suo propiziatorio”.

Ma Éliphas Lévi intende anche spiegare i segni delle carte. Il Bastone per lui rappresenta un simbolo fallico o Jod, la Coppa è la vagina, la Spada è la congiunzione dei due o lingam, inteso qui come axis mundi, unione del Cielo e della Terra, nella ierogamia cosmica; i Denari, infine, rappresentano l’immagine del mondo. Alle dieci Sefirot vengono di nuovo associati le prime dieci lame o carte dei Tarocchi. A Keter corrispondono dunque i quattro assi, e per estensione ciò significa che “la Corona di Dio porta quattro fiori”; a Chokhmah, i quattro due, “la sua saggezza si espande e forma quattro fiumi”. Con Binah, i quattro tre, “dà quattro prove della sua intelligenza”; con Chesed, i quattro quattro “Egli è quattro opere buone di misericordia”. Con Geburah, i quattro cinque “il suo rigore punisce quattro volte cinque delitti”; con Tiferet, i quattro sei “la sua beltà si rivela per i quattro puri raggi”. Con Netsah, i quattro sette “celebriamo quattro volte la sua eterna vittoria”; con Hod, i quattro otto “quattro volte trionfa nella sua eternità”; con Jesod, i quattro nove “il suo trono si sostiene su quattro fondamenta”. Infine, con Malkut, i quattro dieci “il suo unico regno è quattro volte uguale” . Éliphas Lévi a questo punto si è costruito tre sistemi ermeneutici per la decifrazione dei Tarocchi; dispone quindi di una discreta varietà di chiavi letture per affrontare l’interpretazione di ogni lama. E così qualunque combinazione scaturirà dal lancio delle carte, la lettura del disegno del Fato è assicurata: il cinque di bastoni significa rigorosamente Geburah di Jod, cioè giustizia del Creatore o collera dell’uomo; il sette di coppe significa vittoria della misericordia o trionfo della donna; l’otto di spada significa conflitto o equilibrio eterno. Naturalmente questa è solo l’interpretazione personale di Éliphas Lévi sui Tarocchi, che differisce sensibilmente da quella di altri interpreti come ad esempio Wirth o Jung. Tuttavia si tratta in fondo solo della conferma che nella storia del pensiero esoterico       - come per qualunque altro campo della cultura - s’incontrano solo interpretazioni che mettono fuori gioco la possibilità di arrivare ad una verità “in sé”. Quella che Hegel definiva ironicamente come “filastrocca delle opinioni” non risparmia nemmeno i lasciti degli esoteristi e degli occultisti.

Secondo Éliphas Lévi per dominare la luce astrale, il grande agente magico, è necessario riuscire ad eseguire perfettamente due azioni alchemiche fondamentali: il solve ed il coagula, l’atto del concentrare e quello del proiettare, il fissare ed il muovere.  In virtù delle corrispondenze tra macro e microcosmo, l’adepto deve riuscire a realizzare prima in sé stesso le due operazioni; e così, il coagula si ottiene con l’isolamento, ed il solve con l’uso della catena magica. L’isolamento riesce a garantire la giusta concentrazione e il corretto ripiegamento ascetico dell’anima liberata dalla schiavitù delle passioni. Il possesso del proprio corpo astrale è indispensabile, secondo Lévi, all’adepto che vuole dedicarsi alla Grande Opera. Un ascetismo quasi di tipo indiano è prescritto da Lévi agli operatori della magia:  “morte delle gioie della terra e dei piaceri della vita mortale”. E’ peraltro curioso che Lévi attribuisca alla magia questa dimensione spirituale ed ascetica; ma è chiaro che il termine è qui impiegato in un senso molto esteso, tendente a racchiudere dottrine e correnti, che al contrario, non collimano con l’idea generale sulla magia, così com’è stata desunta dalla storia delle religioni. La magia, contiene in sé stessa la cifra di un atto coercitivo verso una potenza che si vuole obbligare ad ubbidire e a piegarsi ad interessi privati o collettivi; a vantaggio o a danno di singoli o di una comunità. Se la condizione essenziale del mago diventa l’assenza di desiderio, allora è chiaro che per magia, Lévi, intende tutt’altro: forse, addirittura, identificando con questo termine lo stesso percorso iniziatico. Rimane il fatto che, ancora una volta, Éliphas Lévi utilizza i termini senza specificare o circoscrivere il loro significato.

 

Qualunque sia, tuttavia, il senso che Lévi utilizza qui per l’espressione “magia”, la rinuncia coagula è la condizione indispensabile alla formazione della catena magica solve. Grazie alle correnti magnetiche generate dall’azione di un gruppo è possibile proiettare la luce astrale nella direzione voluta. La catena magica utilizza gli individui suggestionabili, o predisposti all’isteria come veicoli della forza magnetica, in grado di orientare la luce astrale. Éliphas Lévi spiega anche la fenomenologia del genio - argomento che molto ha affascinato l’estetica ottocentesca - in base al successo dell’uomo “eccentrico” nel forzare e vincere le vecchie correnti magnetiche. Il genio, secondo Lévi, riesce a spezzare le catene magiche del passato e a formarsene di proprie. Per Lévi dominare le correnti magnetiche significa padroneggiare il movimento della luce astrale. Un’altra buona regola, sempre per Lévi, consiste nell’aspettare il momento giusto del deflusso della corrente, quando si vuole opporsi alla stessa. La corrente è allora come un’onda che ha un massimo picco, ma poi inizia a discendere nell’intensità: pretendere di contrastarla nella prima fase significa andare incontro ad un sicuro smacco. Ora, secondo Lévi, basterebbe mettere assieme un gruppo di persone facilmente suggestionabili, sollecitarle adeguatamente, e questo basterebbe a creare una corrente magnetica. Del resto, lo stesso autore più volte richiama la legge magica, che vuole il visibile proporzionalmente commisurato all’invisibile. Perciò, se una catena magica formata da persone istintivamente crede in qualcosa, si forma una corrente magnetica che genera un riflesso della cosa creduta nella luce astrale: nasce così la superstizione. Ma non è tutto. Secondo Éliphas Lévi, esiste un grande agente magnetico universale che va continuamente alla ricerca di nuove catene d’entusiasmo per generare nuove correnti. Come una forza latente o primordiale, questo grande agente vuole riprodursi incessantemente in nuove direzioni contingenti - secondo modalità che ricordanocuriosamente il Wille schopenhaueriano, la volontà cieca, inconscia, e senza finalità de Il mondo come volontà e rappresentazione -. Éliphas Lévi identifica la Grande Opera con il possesso pieno dell’agente magico universale. Adesso lo stesso agente magico viene equiparato dall’autore alla “materia prima”. Il potere di questa è, in fondo, quello che permette l’esperienza della trasmutazione, da sempre iscritta nel reticolo delle corrispondenze universali. Secondo la Tavola Smeraldina, gli elementi inferiori sono equiparabili a quelli superiori, e viceversa; lo stesso ermetismo neo-alessandrino propugna per delle vedute non gerarchiche, in cui il divino sembra dimorare nei più umili strati della materia, come un seme della terra, e così via. Con il sale filosofico, il mercurio, e lo zolfo è quindi possibile operare la trasmutazione del substrato materiale nell’oro spirituale. La stessa parola Arte, per Lévi, contiene quest’idea in sé stessa  - dal termine francese originale “art”, la lettera A designa l’adattamento, la R rimanda alla realizzazione, e la T sta per ternario-. L’adepto deve quindi realizzare la trasformazione dapprima in sé stesso. Il simbolo di questa trasfigurazione alchemica è il pentagramma, ma anche la lama dell’Impiccato. Soltanto apparentemente questa carta dei Tarocchi raffigura l’impotenza totale: le braccia e le gambe dell’Impiccato disegnano una croce sopra un triangolo, il segno alchemico del compimento della Grande Opera. Ma anche il rovesciamento dei piedi al cielo, rimanda, sempre per l’autore, alla spiritualizzazione. Secondo un’analogia simbolica che richiama l’albero rovesciato delle Upanisad. Ma lo stesso Platone aveva suggerito l’immagine dell’uomo come un tronco rovesciato, le cui radici si stendono in cielo ed i rami in terra. L’idea della spiritualità umana raffigurata come un albero rovesciato è presente anche nello Zohar : “l’Albero della Vita si estende dall’alto al basso e il sole lo illumina interamente”.

Se nella luce astrale sono conservati i riflessi delle persone e delle cose, a maggior ragione la stessa deve conservare le immagini dei morti. Quando l’uomo muore, sempre secondo Lévi, esiste il rischio che il corpo siderale non si dissolva; eventualità del resto abbastanza probabile, quando non si è vissuto secondo i dettami della virtù. L’individuo quindi possiede un corpo fisico ed uno siderale, insieme allo spirito.  Al momento della morte, quest’ultimo sempre e comunque si libra in cielo, ma il  rischio è che il cadavere astrale rimanga prigioniero delle passioni coltivate in vita e non si dissolva nel nulla; concezione questa che rimanda abbastanza nettamente al Fedro di Platone. Tramite la necromanzia è possibile evocare queste immagini e costringerle a manifestarsi. Questi cadaveri astrali tormentano i sogni delle fanciulle e vegliano sui tesori nascosti, secondo l’inclinazione al vizio alimentata durante la vita terrena. La necromanzia può quindi esorcizzare queste entità, a patto che l’operatore riesca ad abbandonare lo stato di veglia e ad operare in una sorta di trance, di sonnambulismo lucido in grado di scartare i riflessi e arrivare alla visione diretta dei raggi. In un passaggio successivo, Éliphas Lévi evidenzia come nelle sedute spirituali sia improbabile che gli spiriti si abbassino a comunicare con i mortali; l’evocazione avviene solo per i ricordi che i medesimi spiriti hanno lasciato nella luce astrale: il corpo siderale stesso deve, infatti, essere inteso proprio come un “ricordo” che l’anima del defunto abbandona sulla terra al momento del trapasso. Esso può essere considerato come intermediario tra l’anima e il corpo materiale: da qui i viaggi del corpo siderale, durante lo stato di sonno. Ma secondo Lévi, il corpo siderale prende la forma stessa dei pensieri del soggetto; perciò se quest’ultimo ha la forma di un lupo mannaro, lo si deve alle compulsioni selvagge e sanguinarie che abitano il sognatore. È evidente la prossimità di questa concezione con le moderne teorie psicoanalitiche, specialmente con quelle di Freud, dove il sogno altro non è che il “ritorno del perturbante” sotto forma di travestimento simbolico. Ma a differenza della psicoanalisi, il perturbante di Lévi non si limita alla trasposizione simbolica, ma si anima concretamente per iniziare a vagare nei campi e spaventare i passanti. Naturalmente la manifestazione trasfigurata del corpo siderale è vulnerabile - ed in virtù della legge delle corrispondenze - le ferite inferte saranno presenti sul corpo materiale al momento del risveglio. Con questo pervertimento della luce astrale, Lévi spiega anche il fenomeno delle ossessioni diaboliche. Si tratta di una malattia dell’apparecchio nervoso, che assorbe o proietta in eccesso la luce astrale pervertita. Un disturbo della volontà causato dall’ipertensione. Tra le persone si verifica dunque, sempre per Lévi, uno scambio di correnti magnetiche, generato dalle leggi dell’attrazione e della repulsione. I corpi siderali, il potere dell’immaginazione: l’uomo comune è destinato ad essere influenzato e ad influenzare a sua volta gli individui predisposti ad inter-reagire con la sua individualità. Soltanto l’adepto possiede le difese necessarie contro il magnetismo, perché soltanto lui è in grado di padroneggiare il potere della luce astrale. La magia nera, sempre per Lévi, non è altro che l’uso di questa forza per perseguire il male. La capacità di evocare le forme della luce astrale, quando è diretta dalla follia e dalla malvagità, inevitabilmente produce figure mostruose e diaboliche: “in magia nera, il Diavolo è il grande agente magico impiegato per il male da una volontà perversa”. Il potere magico quindi è in sé neutrale, il colore (nera, bianca, ecc.) dipende dalle finalità perseguite dall’operatore. Ciò nondimeno per esercitare un sortilegio con una certa efficacia è indispensabile coltivare un odio puro e alieno dal lucro personale. Secondo Lévi la gelosia, la cupidigia e la passione sessuale possono, in quanto forze di attrazione, annullare il potere di proiezione del sortilegio, fino a farlo ricadere sull’operatore. La magia cerimoniale, in questo senso, serve a rafforzare e a fissare la volontà di chi si accinge ad effettuare un sortilegio.  L’addestramento della volontà è un passaggio indispensabile all’ottenimento del potere sulla luce astrale. Una volontà molto determinata e scevra da passioni inferiori, è, in ogni caso, destinata a raggiungere i suoi fini malefici. Tuttavia, anche i gesti inconsci delle mani e degli occhi possono favorire l’involontaria proiezione delle correnti magnetiche all’esterno. Ogni individuo è saturo di luce astrale, ed è preferibile usare certe accortezze quando si dà la mano o si fissa un altro negli occhi. Anche altre parti del corpo umano fungono da ricettacoli dei segni impressi nella luce astrale: la fronte e la mano recano la lettera del destino personale. Si ricorderà come la stessa Bestia dell’Apocalisse abbia iscritto il numero nelle stesse parti del corpo. Tutto si riflette, secondo Lévi, nella luce astrale; anche gli astri, che a loro volta incidono il fato individuale nelle fronti e nelle mani. La divinazione è quindi, secondo Éliphas Lévi, l’arte di saper leggere questi segni. Una sola lettera del destino s’iscrive nella fronte dell’uomo, destinata a dominare interamente il suo accadere. Qualora questa lettera risulti mal conformata, è presumibile prevedere la presenza di una forte conflittualità tra la volontà del singolo e la particolarità del fato.

Nella parte finale del suo Dogma, Éliphas Lévi si sofferma sul concorso fraterno tra la ragione e la fede, equiparate alle colonne del tempio, Jakin e Bohas. Ma tutto il reale è per Lévi segnato dalla dicotomia essenziale: sole/luna, destra/sinistra, maschile/femminile, ecc. La dualità, tuttavia, s’iscrive nel reticolo delle corrispondenze analogiche; perciò, secondo l’assunto della Tavola Smeraldina, anche l’essere più umile è uno specchio di Dio. Perfino il verme della terra è un riflesso dell’immagine divina. Si tratta del principio d’interdipendenza universale che riguarda i rapporti tra macro e microcosmo, ma anche i contrari: relazioni occulte, tra metalli, pianeti, piante, ecc. Secondo Lévi, l’analogia tra i contrari è possibile, proprio perché la dualità discende dall’identica radice, ossia dall’Uno. Parlando del significato segreto della parola francese “devin” - indovino - l’autore sostiene che si deve “fare rientrare il cinque nel quattro, il quattro nel tre, (il) tre nel due e (il) due in Uno, traducendo quest’UNO in lettere dall’alfabeto ebraico primitivo, (l’operatore N.d.R.) scriverà il nome occulto del Grande Arcano e possederà una parola della quale il sacro tetragramma stesso non è che pallida immagine”. Tutto deriva dall’Uno, ma proprio per questo è annullata qualsiasi assiologia che tenda a definire una priorità tra l’altro ed il basso, come ricorda la Tavola Smeraldina. Siamo quindi in presenza di una concezione che potremmo definire, con qualche riserva, panteistica. Principalmente, perché Lévi mantiene la differenza essenziale tra i riflessi della luce astrale e la visione diretta. Tuttavia, l’iniziato, una volta riconosciuta l’illusione sottesa al divenire, deve essere in grado di liberarsene e riconoscere la discendenza del tutto dall’Uno. Inoltre, la gerarchia è mantenuta da Lévi nella contrapposizione tra il mondo profano e gli iniziati in possesso della conoscenza sull’arcano.

L’armonia, secondo Lévi, non è altro che l’equilibrio presente nell’analogia dei contrari: tuttavia la causa ultima di tutte le cose è l’unità assoluta, l’Uno-tutto. Dall’unità deriva il tutto, che ad essa ritorna: “l’analogia è il solo possibile mediatore fra il visibile e l’invisibile, fra il finito e l’infinito”. Appare quindi chiaro che il valore ontologico dell’analogia è dichiarato, solo per ricondurre immediatamente la dicotomica struttura del reale alla rassicurante filiazione dall’Uno. La contraddizione fenomenica è quindi disciolta nel reticolo delle corrispondenze analogiche, in vista dell’emanazione dall’unico Principio. In altre parole, Lévi produce un alleggerimento della dicotomia intrinseca al divenire, evidenziando che la contraddizione è solo apparente all’interno della tautologia fondamentale; se secondo l’assunto della Tavola Smeraldina, “ciò che è in alto” equivale analogicamente a “ciò che è in basso”, il caos e la contraddizione non esistono, in quanto i due contrari si equiparano nella loro identità reciproca e in quella della causa prima da cui derivano. I contrapposti sono identici, perché a loro volta sono riconducibili al Principio che li ha emanati. Il pensiero di fondo di Lévi è quindi monista: ma strutturato in un progetto - quello del Dogma - in cui si propone di conciliare il Cristianesimo con la Cabbala ed i Tarocchi. Non a caso il Dogma si chiude con il richiamo alla lama che simboleggia il più alto potere iniziatico, a detta di Lévi: il Mondo, simbolo della totalità del mondo e dell’uomo, e - secondo Gilbert Durand - dell’antagonismo equilibrato.

La Chiave dei Grandi Misteri si apre con l’elenco di una serie di problemi classici di natura teologica, che Éliphas Lévi cerca di risolvere. Sono questioni concernenti l’esistenza di Dio, della vera religione e dei suoi misteri, del confine tra fede e superstizione, del modo di volgere a favore le obiezioni della filosofia. In altre parole, si tratta di argomenti apologetici. Éliphas Lévi, però, sposa una prospettiva pseudo-deista, piuttosto che fideista, in quanto definisce la religione “naturale” come una facoltà dell’anima umana, assimilabile all’intelligenza ed all’amore. Il passo indietro rispetto al deismo classico, Lévi lo compie quando ricorda che la vera religione naturale è quella rivelata; mentre il movimento deista del XVII e XVIII secolo, si rifiutava di prendere in considerazione tutto quello che esulava la ragione naturale, rifiutando in modo particolare il ricorso a qualsiasi tipo di rivelazione. La questione centrale è che Lévi si sforza di trovare un punto d’incontro tra la fede e la ragione scientifica, preoccupandosi di dimostrare come i rispettivi oggetti d’indagine siano differenti, e perciò ognuna non invade il territorio dell’altra. La scienza indaga il cognito, la fede l’incognito: entrambe sono indispensabili all’intelligenza umana. Tuttavia, non si tratta di un rapporto paritetico, perché nel sodalizio, è la ragione ad essere subordinata alla fede. Solo quest’ultima è in grado di raggiungere Dio, mentre la scienza non può assolutamente pronunciarsi sulla Sua esistenza. Nell’insegnamento della Cabbala, Dio è l’Uno da cui emanano i numeri. Lévi illustra quindi la numerosofia sottesa ai dogmi della religione primordiale. L’Unità simboleggia il principio ed il Tutto, la verità panteistica dell’Uomo-Dio, Il Binario, il principio femminile, il Ternario il numero della creazione - attraverso l’autoriproduzione del principio divino, ma anche mediante le polarità contrapposte -. Il Quaternario è il numero della forza, riprendendo le considerazioni già espresse nel Dogma: “è il ternario completato dal suo prodotto, è l’unità ribelle riconciliata alla trinità sovrana” . Lévi, in definitiva aggiunge arbitrariamente un passaggio in più al normale movimento triadico della dialettica hegeliana, in cui è il terzo termine a sigillare e concludere l’Aufhebung. La tesi e l’antitesi si superano conservandosi nella sintesi, ma i passaggi sono tre: non si capisce perché mai, se il ternario è già un tutto dovrebbe essere completato dal suo prodotto. Due sono le possibilità, 1) o la trinità non è veramente sovrana, e quindi ha una ragione di essere il quaternario ( 1+2+3=4); 2) oppure, al contrario, essa è effettivamente sovrana, ma allora la completezza è già data dalla triade, senza bisogno di aggiunte addizionali (1+2 = 3).  Non è nemmeno possibile interpretare il passaggio come allegoria soteriologica dell’uomo versò la trinità cristiana, perché non si spiegherebbe l’inutile reiterazione dell’uomo come secondo termine il Figlio e come quarto l'homo religiosus. Il Figlio, divina incarnazione, conterrebbe già l’Uomo, quindi. Questa sorta di “cattiva infinità” già emersa nell’interpretazione del quaternario, riaffiora anche per il quinario, di cui Lévi dà un’interpretazione abbastanza sorprendente, identificandolo con il numero religioso per eccellenza, in quanto riunione di quello di Dio con quello della donna (3+2). Anche in questo caso, non viene motivata la ragione di questa reiterazione; non solo il ternario - secondo quanto scritto da Lévi,  numero della creazione - avrebbe dovuto essere già comprensivo ontologicamente del Tutto, ma addirittura la possibilità di un’integrazione addizionale dell’unità con l’insieme era già stata contemplata nel quaternario. A meno che non si voglia considerare il quaternario come esclusivo numero del ricongiungimento riservato al polo maschile, e il quinario a quello femminile. Poteva, però, essere sufficiente il ternario, senza bisogno di ulteriori frammentazioni. Il senario è, sempre per l’autore francese, il numero della prova iniziatica, mentre il settenario è il numero biblico. L’otto è il numero dell’equilibrio tra i contrapposti: una reazione segue sempre a un’azione, l’Anticristo deve la sua esistenza a Cristo. Il nove è il simbolo del percorso solitario dell’Eremita,  il dieci il numero assoluto della Cabbala.  L’undici è il numero della forza, il dodici del simbolo universale, il tredici della nascita e della morte. Il quattordici simboleggia l’unità, il quindici, viceversa, la separazione. Il sedici raffigura il tempio, il diciassette la stella dell’amore e dell’intelligenza. Il diciotto il dogma velato, il diciannove    - al contrario - la luce divina. Queste primi diciannove numeri, secondo Lévi, costituiscono le chiavi della teologia occulta, mentre i rimanenti sono le chiavi della natura. Con questa numerologia, Lévi è convinto di aver risposto alla prima domanda sull’esistenza di Dio. Ad una prima impressione, il risultato potrebbe sembrare alquanto insoddisfacente,  tuttavia è inutile pretendere da Éliphas Lévi una risposta puntuale e minuziosa, quale potrebbe essere quella di un teologo o di un filosofo. Egli è essenzialmente un occultista, e inevitabilmente la sua risposta non può avere la forza esaustiva dell’argomentazione: Lévi si limita a fare intravedere le relazioni intrinseche tra i diciannove numeri, e a chiamare questi rapporti Dio. Il primo, l’idea dell’alleanza tra l’uomo e Dio - Adam Kadmon -, rimanda progressivamente all’ultimo, al diciannove, simbolo della luce, passando progressivamente attraverso gli altri diciassette numeri. Questo Tutto numerico, questa concatenazione necessaria, è Dio, e Lévi ritiene di non dover aggiungere altro.

Nell’affrontare il secondo problema - la questione della plausibilità di una vera religione - Éliphas Lévi dopo la paradossale identificazione tra ragione naturale e Rivelazione, ravvisa nel sentimento della carità, la cifra distintiva dell’autentica fede universale. La carità permette anche di superare il terzo problema e di realizzare l’accordo tra la ragione e la fede, conquistando l’intelligenza dei misteri. Tuttavia, più che di accordo si potrebbe parlare piuttosto di un patto di non aggressione unilaterale: la scienza deve rinunciare a spiegare il dogma, dal momento che se tentasse di dimostrarlo matematicamente, finirebbe per svilirlo. Con la quarta soluzione, è ribadito quindi il primato della fede sulla ragione. La separazione della vera religione dalla superstizione - puro formalismo svuotato di significato - e dal fanatismo - feticismo iconografico - è la risposta al quinto problema. 

Nella terza parte de La Chiave dei Grandi Misteri, Éliphas Lévi affronta la natura del grande agente magico, che aveva già trattato sinteticamente in Il Dogma dell’Alta Magia, prevalentemente a proposito della luce astrale. Nella Chiave, viene delineata l’essenza di quest’unica sostanza diffusa nell’infinito, in cielo come in terra, sottile e fissa. Si tratta della stessa sostanza ribattezzata da Ermete il Gran Telesma, che può manifestarsi come luce, ma anche come vibrazione perenne, messa in moto dalle forze magnetiche. Questo fluido onnicomprensivo, questo agente magico, appare con modalità cangianti quando attraversa i differenti stati e le pluralità degli enti: nell’infinito coincide con l’etere, negli astri con la luce astrale, negli esseri inferiori si manifesta come fluido magnetico, nell’uomo come corpo astrale o mediatore plastico. Si ripresenta il solito spostamento semantico dei termini, in cui Lévi sovente incappa: nel Dogma, come si ricorderà, il grande agente magico era identificato con la luce astrale, mentre nella Chiave quest’ultima assume solamente il valore di un’applicazione particolare e non coincide per nulla con il fluido primordiale. Éliphas Lévi chiama dunque con la stessa espressione “luce astrale” sia il concetto generale che la determinazione specifica, ma è evidente che per lui questo non rappresenta una vera difficoltà, dal momento che ciò di cui si tratta è unicamente il grande agente magico, indipendentemente da come si decida di chiamarlo. È sempre lo stesso fluido, che come uno specchio riflette i pensieri e le percezioni di ogni creatura vivente e di tutte le entità sovrannaturali. Questo medium conserva e trattiene tutto, “le immagini di ciò che è stato, i riflessi dei mondi passati e, per analogia, gli abbozzi dei mondi futuri”; potremmo oggi ribattezzarlo “Immaginario”, richiamandoci a Gilbert Durand, perché è come una sorta di serbatoio universale su cui tutto s’imprime perennemente come traccia ipostatica, mentre l’essenza del pensato scivola via nel tempo. Rimangono perciò soltanto le forme spettrali, i riflessi, di quest’energia primitiva che altro non è che il vissuto con le sue emozioni, desideri, volizioni: le determinazioni dell’agire si esauriscono concretandosi in risultati o fallimenti, o viceversa finiscono per riprodurre a loro volta altre emozioni-reazioni. Questa sostanza elementare, questo fluido universale in cui si specchiano i riflessi di tutto ciò che è accaduto, potrebbe accadere o accadrà, è determinato dal perfetto equilibrio del moto e della stasi, ma è al contempo fisso o volatile: “il fisso attira il volatile per fissarlo, mentre il volatile rode il fisso per volatizzarlo” Il fluido è transeunte, la stasi occasionale deriva dall’equilibrio delle forze magnetiche contrapposte che si annullano a vicenda. La mancanza di equilibrio rimette in moto il fluido, mentre se esso è controbilanciato da centri magnetici che si azzerano vicendevolmente agendo sul suo divenire, si genera inevitabilmente la stasi. Il mediatore plastico dell’uomo può - in seguito ad un lungo ed indefesso addestramento - agire come una calamita che attira o respinge questo fluido universale che qui Lévi ritorna a chiamare “luce astrale”, registrando l’ennesimo spostamento semantico. Ma questo mediatore plastico è attivato dalla forza dell’immaginazione. Come il corpo si nutre dei prodotti della terra, il corpo astrale, o mediatore plastico, si ciba di luce astrale, assorbendola durante la veglia con la respirazione ritmata e nello stato di sonno.  Mentre si dorme, secondo Lévi, ci s’immerge in un oceano di luce astrale, “in cui galleggiano innumerevoli immagini, resti di esistenze naufragate, miraggi e riflessi di quelle che passano, presentimenti di quelli che nascono”. Se si produce un sovraccarico di luce astrale nel mediatore plastico, il sonnambulismo naturale provvede con il moto inconscio del corpo a scaricare l'energia in eccesso. Se il mediatore plastico viene danneggiato o subisce lesioni, si producono degli stati allucinatori nel soggetto. È molto facile, inoltre, che mediatori plastici di individui diversi si respingano o si attraggano, secondo modalità analoghe a quelle dei campi elettrici, producendo così reazioni innate di simpatia e antipatia. Da qui la necessità di controllare le passioni; è evidente che i mediatori plastici possono assorbire solo una parte delle suggestioni fluidiche, così che quello che non si riesce a rimuovere con il sonnambulismo, è destinato a tramutarsi nel suo opposto: la passione in ossessione, l’odio in amore, ecc.. secondo l’autore, le nature passionali sono come delle calamite esaltate, da cui occorre guardarsi. Si può magnetizzare direttamente il mediatore plastico di un’altra persona, o agire indirettamente sulla sua volontà, lasciando che questa a sua volta influenzi il corpo astrale. Il contatto fisico, ma anche lo sguardo e la voce provocano la magnetizzazione dell’oggetto. È evidente il credito di Éliphas Lévi verso Mesmer e le sue teorie sul magnetismo animale. Mesmer riteneva che il fluido magnetico risiedesse nell’uomo come negli animali, e che potesse essere trasmesso mediante particolari gesti delle mani, denominati “passi magnetici”. La magnetizzazione, secondo Mesmer, provocava nel paziente uno stato di sonnambulismo indotto, fino a teorizzare la necessità dell’edificazione di una vera e propria “educazione sonnambolica”. Da qui a postulare che il sonnambulismo sia dovuto all’eccessiva accumulazione magnetica di luce astrale, come pensa Lévi, il passo è breve. Anche l’importanza che l’occultista francese attribuisce ai sogni, come rivelatori dello stato di salute del mediatore plastico, è mutuata dall’intuizione pre-freudiana di Mesmer sull’esistenza dell’inconscio.

Ricapitolando abbiamo visto che per Lévi le allucinazioni sono prodotte da lesioni al mediatore plastico, mentre il sonnambulismo è generato da moti irregolari della luce astrale assorbita in eccesso.  Il mediatore plastico - o corpo astrale - aspira e respira la luce astrale, come il corpo fisico fa con l’aria. È evidente che siamo in presenza di un’unica sostanza o fluido che si determina peculiarmente all’esterno - luce astrale - ed all’interno dell’uomo  - corpo astrale - senza per questo mutare natura. Si tratta sempre della stesso fluido universale in applicazioni differenziate: ecco perché il mediatore plastico - fatto ad immagine e somiglianza del corpo fisico - assorbe la luce astrale, anche se non possiede una “capienza” illimitata. Non può averla, perché essendo una copia fedele del corpo grossolano, riproduce l’estensione fisica del suo principium individuationis nello spazio. È una sostanza universale che sì è venuta a delimitare nel finito e nel contingente, così come l’acqua prende la forma del recipiente. Quindi, dal momento che il mediatore plastico non ha capacità illimitate, diventa essenziale regolarne le potenzialità ed evitare la sovraesposizione cogente.  Possedere il potere d’intervenire sulla luce astrale tramite l’immaginazione opportunamente addestrata, significa impossessarsi della forza magnetica: per Lévi la Cabbala - assimilata adesso all’Alta Magia - è la scienza della luce. La Cabbala stessa costituisce il sostrato della vera religione, conquistabile qualora si sollevi il velo trasparente che appanna le verità eterne del Giudaismo e del Cristianesimo. Tuttavia l’eccessiva enfasi posta da alcuni cabbalisti sulla legge delle analogie universali, ha finito per declassare questa scienza riducendola a pratiche evocative, di scongiuri ed incantesimi, fino a sconfinare pericolosamente nella magia nera. La legge delle corrispondenze analogiche tra segni e cose, ha prodotto in alcuni adepti un interesse esclusivo sulla forza evocativa delle parole: pronunciare il nome di Dio, equivale quindi a manifestare la Sua potenza. Pronunciare il nome di un essere, significa evocarlo, o addirittura forgiarlo dal nulla. Allo stesso tempo, essendo il pensiero assimilabile ad una sorta di linguaggio silenzioso e interiorizzato, è evidente che i pensieri degli operatori vanno ad incidersi nella luce astrale. Per Lévi, diventa quindi indispensabile che l’adepto acquisisca una sorta d’educazione del linguaggio e di morigeratezza del pensiero, evitando di profferire parole vane o di formulare astrazioni disarmoniche. In particolare, è il potere dell’immaginazione che attira la luce astrale e la modella secondo i desideri dell’operatore: i sogni e i pensieri ricevono una forma nella luce astrale. Con questa luce dunque si conservano e si riproducono le effigi del desiderio, guidate dalle vibrazioni dell’immaginazione creatrice. Si ricorderà che nel Dogma dell’Alta Magia, Éliphas Lévi aveva indicato chiaramente che si tratta di forme alterate delle idee originali, impresse come riflessi sulla luce astrale: la sua formazione platonica gli nega la possibilità di conoscere le forme originali già nel regno del divenire. Tuttavia, data la corrispondenza analogica macro/microcosmo, agire sulla copia significa riuscire ad operare sul modello originario. Ma è possibile agire indisturbati anche sulle altrui volontà. Per Éliphas Lévi vi sono due modalità di esistenza proprie a tutti gli esseri, quella individuale e quella collettiva. Si accede a quest’ultima mediante il sonno e l’estasi. È possibile quindi agire sul corpo siderale della vittima, quando questa sta dormendo, a patto di riuscire a padroneggiare con la forza dell’immaginazione il doppio movimento d’attrazione e repulsione della luce astrale. I corpi materiali si attirano e respingono in ogni caso durante lo stato di veglia: per riuscire ad invertire le correnti magnetiche del corpo siderale della vittima è necessario influenzarlo durante il sonno. Nel momento della regressione della coscienza nell’oceano indistinto dell’attività onirica, la vittima è molto vulnerabile e suggestionabile. Ma si può ottenere lo stesso risultato, in tutti quegli stati di diminuita attività della coscienza, quando le difese della mente sono temporaneamente abbassate. È per questo motivo che la vicinanza della gente inferma provoca spesso dei brutti sogni, è per la stessa ragione che avvengono quegli strani casi di suggestione nociva nelle donne incinte, e si producono strane malattie psicosomatiche a contatto di individui malati o malvagi. Per Éliphas Lévi, siamo tutti esposti al rischio d’influenze magnetiche: “la luce magnetica divora incessantemente, perché crea sempre e perché, per produrre continuamente, bisogna eternamente assorbire”. Si ricorderà a tal proposito, quanto era stato scritto dall’autore nel breve saggio sulla Magia delle Campagne, circa le strane allucinazioni dei pastori. L’unica differenza risiede in chi subisce passivamente le correnti magnetiche della luce astrale ed in chi riesce a dirigerla tramite il potere dell’immaginazione creatrice, proiettandone e riproducendone a volontà, riflessi ed immagini. La stessa perdita di controllo del mediatore plastico, provocata dall’eccessivo assorbimento della luce astrale,  genera degli spettri, o per meglio dire, dei fantasmi fluidici. Éliphas Lévi prende quindi le distanze dalla cultura spiritista dell’epoca, formatasi sulle originali teorie di Kardec: i fantasmi che infestano le abitazioni, non sono spiriti di morti, ma coagulazioni fluidiche che possono essere dissolte. È  allora evidente, alla luce di tutte queste osservazioni, che Éliphas Lévi attribuisce un’importanza fondamentale al controllo della luce astrale e del mediatore plastico, poiché se al di fuori dell’uomo non esistono entità demoniache o angeliche che possano concretamente limitare il suo dominio, padroneggiare sé stessi equivale ad assicurarsi un potere immenso su tutto il macrocosmo. Diventa essenziale allora, per Lévi, nel Libro Secondo della Chiave, dedicarsi all’elaborazione di una teoria della volontà.  L’autore francese si cimenta qui, con un problema filosofico classico, cercando di conciliare la possibilità della libertà umana con l’idea dell’onnipotenza di Dio. Secondo Sartre, il dilemma era irriducibile, e si doveva pertanto arrivare a compiere una scelta radicale in favore dell’Uno o dell’altra.  Éliphas Lévi propende per una soluzione che mi ricorda molto la mistica musulmana, piuttosto che sant’Agostino e i Dottori della Chiesa. In questa prospettiva, l’autentica libertà umana non può che coincidere con la volontà di Dio, perché quando l’uomo si libera dalle cattive passioni e squarcia il velo dell’ignoranza sensuale, deve  necessariamente desiderare le stesse cose che vuole Dio. Alla vera libertà si arriva dunque alla fine di un lungo cammino interiore: una volta presa coscienza della sua natura divina, l’uomo si libera dalla dispersione compulsiva indotta dalle suggestioni caduche del mondo del divenire, per acquistare platonicamente coscienza del regno delle essenze.  La libertà, dunque, per Lévi, consegue ad un lungo perfezionamento interiore, e non   coincide con la possibilità “umana, troppo, umana” di fare le proprie scelte, anche se sbagliate e profane. In altre parole, nella prospettiva iniziatica di Lévi, non è contemplata la possibilità di scegliere la caducità ed il mondo del divenire. Ma se definiamo la libertà come una sostanziale “assenza di costrizione”, allora la soluzione caldeggiata da Lévi è fallita.

Ritornando alla teoria della volontà, si deve ricordare che la forza si concreta principalmente nella parola. Da buon cabbalista, Éliphas Lévi sa perfettamente che “ tutta la magia è in una parola, e questa parola pronunciata cabalisticamente, è più forte di tutte le potenze del cielo, della terra e dell’inferno” . Éliphas Lévi identifica la parola magica con due vocaboli “ Adonai”, “Agla”  e con un’espressione “Jod he vau he”, salvo poi ricordare che senza aver conseguito l’affinamento superumano e magico della volontà, i risultati agognati sono destinati allo smacco ed all’insuccesso. Si tratta dunque, di volere “con tutto il cuore, al punto di spezzare per lei i propri aspetti più cari; con tutte le proprie forze, al punto d’esporre la propria salute, la propria fortuna, la propria vita”.

Naturalmente per Lévi il miglioramento spirituale del singolo contribuisce alla crescita morale collettiva. È per questo che gli uomini intelligenti e buoni rischiarano e migliorano il loro ambiente familiare e sociale, mentre gli stupidi e malvagi riflettono solo negatività e basse compulsioni. La vera iattura è che i sentimenti di simpatia o antipatia, e più in generale le affezioni, sono influenzate dalle correnti magnetiche e perciò non possono essere controllate dall’uomo comune. I fluidi della luce astrale possono attrarre inconsciamente verso individui, al contrario da evitare. L’iniziato è al riparo da questi rischi perché conosce il punto d’equilibrio del proprio mediatore plastico, denominato “Ascendente”, mentre il “Flagum” è il riflesso delle idee individuali nella luce astrale. La conoscenza del proprio Flagum permette di determinare l’Ascendente personale, indirizzandone la parte attiva verso quella passiva di un altro che si vuole sottomettere.   Mentre gli individui che esercitano inconsapevolmente delle influenze astrali nocive sugli altri, di solito vivono isolati dalla comunità civile o a stretto contatto quotidiano con animali. Ritornando sugli argomenti già proposti nella Magia delle Campagne e Stregoneria dei Pastori, Éliphas Lévi crede che specialmente i pastori siano soggetti a scambi magnetici con il gregge, da cui ricevono correnti fluidiche negative che sovente producono effetti somatici di possessione diabolica; per converso anche gli animali subiscono il fluido negativo del pastore, rischiando così di cadere vittime di misteriose malattie che nel giro di brevissimo tempo conducono alla decimazione del gregge. Per Lévi, i pastori sono i tipici esempi d’individui destinati a subire passivamente i fluidi astrali e pertanto a non essere liberi, mentre solo pochissimi iniziati sono in grado di dirigere le correnti magnetiche, guadagnandosi così la vera indipendenza ed il controllo della vita. Si tratta infine di fare una scelta etica - possibile ovviamente solo a chi è pervenuto a conoscere le leggi magnetiche - tra la vita, intesa come autocontrollo ed esercizio della volontà orientata verso il bene e la luce, e la morte, ossia la schiavitù dell’esistenza animalesca soggiogata alle correnti astrali. Ma per tutti quelli - e sono ovviamente la maggioranza - che scelgono la dissoluzione abbandonandosi al vortice delle suggestioni compulsive, è quasi sicura una fine tragica, materializzata negli abissi dell’omicidio e del suicidio. Invece, al contrario, coloro che hanno scelto di addestrare il proprio mediatore plastico al controllo della luce astrale, sono immediatamente riconoscibili per l’armoniosa grazia che emanano i loro corpi. Per Éliphas Lévi la fisiognomica individuale riflette, innanzi tutto, i risultati dell’educazione “magnetica”: così la bellezza fisica è destinata a sfiorire precocemente negli spiriti lussuriosi, mentre si conserva levigando le proporzioni del corpo nei virtuosi. Secondo la legge delle corrispondenze universali esemplificata mirabilmente dalla Tavola Smeraldina, niente è dovuto al caso, l’interiore necessariamente si riflette sull’esteriore e viceversa; non è possibile che un pensiero o un sentimento non si trasformi immediatamente in un’energia capace di determinare una trasmutazione dell’ambiente e del soggetto stesso. Si capisce quindi perché sia così importante riuscire a dominare le forze astrali che da sempre abitano nel mediatore plastico: “L’uomo che sa comandare a sé stesso è re di tutta la natura”. Il mito di Circe, in fondo, non è che la trasposizione simbolica del potere magnetico che un’ascendente esercita su di un altro contrapposto. La fascinazione femminile di Circe tramuta in porci i compagni di Ulisse, perché agisce sul loro ascendente sovraccarico di pathos sessuale; Éliphas Lévi, per sfuggire alla forza delle suggestioni, suggerisce di visualizzare degli animali che raffigurino simbolicamente le qualità necessarie ad ottenere una reazione nervosa immediata: il domatore di leoni, ad esempio, dovrà convincersi di essere lui stesso un leone che si trova di fronte a dei semplici cani. Il segreto, per Lévi, è racchiuso tutto in questi rapporti di forza tra ascendenti: quando s’incontrano due polarità contrapposte, inevitabilmente si crea un rapporto di dominazione. Se la polarità è identica, come può esserlo tra due caratteri simili, non accade niente, perché non si crea il flusso magnetico di base. Ma nel caso che le polarità siano contrapposte-  e quindi con caratteri complementari - allora tra i due prevale chi ha raggiunto un migliore addestramento magnetico. Ecco, quindi, spiegati i motivi dell’insistenza dell’autore sulla morigeratezza delle passioni e sull’autocontrollo. Il più forte magneticamente - quello con la volontà e l’immaginazione creatrice più sviluppate - è destinato all’esercizio del comando. Si comprende ora, perché Lévi più volte nelle sue opere riconduce l’alta magia alle leggi della morale naturale. Nella prospettiva teorica dell’autore, la morale,  educando l’uomo alla rimozione delle pulsioni ed all’educazione sociale, preserva l’adepto dalla dispersione energetica. La morale centralizza il potere magnetico, mentre le pulsioni provocano un notevole dispendio fluidico, costringendo il soggetto ad inseguire passioni effimere che svuotano le residue forze accumulate nel mediatore plastico. Al di là della formazione cattolica dell’autore - che sarebbe ingenuo pensare definitivamente rimossa -  si denota chiaramente in questa concezione che la morale, l’ethos, non è più guida per l’esercizio virtuoso e disinteressato del bene, ma piuttosto uno strumento per accumulare forza. Possiamo quindi scorgere tra le righe finali un parallelo con le pagine nietzscheane della Genealogia della Morale, dove la morale non è altro che l’interiorizzazione della volontà di potenza. Ed in effetti, Lévi non è andato molto lontano dalle conclusioni del pensatore tedesco, se non fosse che vi ha aggiunto le acquisizioni del mesmerismo e della nascente sottocultura spiritistica dell’epoca. Per Éliphas Lévi, una volta squarciato il velo dell’ignoranza, si tratta di scegliere tra la luce e l’immortalità e le tenebre e l’ignoranza, tra Dio ed il Diavolo. L’uomo, ha in sé un grande potere che gli deriva dalla conoscenza delle leggi magnetiche: il suo destino consegue dalla decisione sull’uso che vorrà farne. Non a caso, Éliphas Lévi, arrivato alla fine della Chiave, svela che il Grande Arcano, il segreto incomunicabile, è proprio questa scienza assoluta del bene e del male.

Lo scopo primario dell’opera di Éliphas Lévi deve probabilmente essere individuato nello sforzo incessante di accordare la  Cabbala e l’insegnamento dei Tarocchi alla dottrina cattolica, ma un rilievo particolare assume, nei suoi libri, la teoria mesmerica continuamente ricondotta all’interpretazione dinamica dei fenomeni della luce astrale.  Nell’opera di Lévi esiste una parte speculativa, alla quale è riservato il progetto cabbalistico sopra indicato, ed una parte pratica che consiste nel controllo del mediatore plastico e delle correnti magnetiche. L’occultismo moderno, così come viene a configurarsi nell’età industriale, non può limitarsi ad essere una corrente mistica meramente intimistica e quietista, ma deve al contrario operare incessantemente nella ricerca empirica. L’occultismo ottocentesco radicandosi nella stessa dimensione ottimistica ed utopica propria all’ideologia delle macchine, aspira al padroneggiamento dell’esistente. Il progetto, nel quale s’iscrive la corrente che si pone in continuità oggettiva con la philosophia occulta medievale, è il controllo e l’eventuale rovesciamento del reale, sentito come restrizione alle aspirazioni individuali e fonte di frustrazione per gli aneliti dell’anima. Rispetto al magismo esotico delle culture non occidentali, in cui lo scopo delle evocazioni e degli esorcismi può essere tanto individuale che collettivo - volto al soddisfacimento di un bisogno individuale come alla benedizione di un villaggio - l’occultista moderno non esce mai dalla dimensione soggettiva. L’antropocentrismo magico dell’occultismo moderno è sempre rigorosamente mirato al perfezionamento individuale. L’interesse collettivo è realizzato solo in maniera riflessa, come estensione del potere psichico del singolo al milieu e addirittura all’epoca, o alla formazione pedagogica di allievi in grado di recepire e proseguire l’insegnamento del maestro. Ma non si parla mai direttamente di bene sociale, se non passando attraverso l’istanza del singolo. È evidente allora che il perfezionamento individuale per Lévi può essere raggiunto soltanto tramite la conoscenza dei segreti della luce astrale. Da qui il continuo insistere dell’autore su questo punto. Nel Corso di Filosofia Occulta , raccolta del carteggio con il barone Spedalieri, Lévi tratta più marginalmente l’argomento e si concentra sui simboli: ma non si deve ignorare che queste lettere sono mirate alla formazione pedagogica di un allievo.



Si ricorderà che il barone ed Éliphas Lévi avevano intrecciato una fitta corrispondenza durata fino al febbraio 1874. Purtroppo l’edizione italiana in commercio non è rifinita sotto il profilo filologico, in quanto riporta solamente le lettere di Lévi, ignorando invece quelli di Spedalieri, così che abbiamo una prospettiva estremamente parziale del carteggio. Nonostante queste difficoltà, fin dalle prime lettere si evince che Éliphas Lévi sembra preoccupato per lo più di formare gradualmente il suo allievo, allorché gli raccomanda incessantemente la pazienza e la perseveranza e lo prega di non cercare di bruciare le tappe. Sporadicamente, in qualche passo del carteggio pedagogico incentrato sui simboli,  viene richiamata l’attenzione sulla priorità della luce astrale e sui fenomeni da essa scaturiti: “In quanto ai vortici che fanno muovere i tavolini, dovete comprendere che essi obbediscono alle cieche fatalità della luce astrale”. Si accenna anche al “dono delle lingue” di cui aveva parlato Guénon, ma in una prospettiva essenzialmente diversa. Mentre per quest’ultimo si tratta della capacità di comprendere ecletticamente le diverse forme storico-contingenti della Tradizione, dopo averne riconosciuta l’unità metafisica essenziale, per l’occultista francese il “dono delle lingue” è l’espressione piuttosto di una soprannaturale e misteriosa “erudizione” linguistica. Il dono è uno dei risultati cui conduce il controllo della luce astrale, in cui si riflettono come in uno specchio comune le “immagini e reminiscenze” proiettate nei rimandi della totalità spazio-temporale. La padronanza linguistica improvvisa di idiomi sconosciuti è resa possibile dalla fruizione riflessa dei simulacri impressi come tracce dell’Immaginale, dall’assimilazione del patrimonio filogenetico inciso nella struttura virtuale del serbatoio onirico. I pensieri, le emozioni ed i sogni di tutti gli esseri sono destinati ad ancorarsi come scorie, come residui luminosi di vissuti, in grado però di assicurare il passaggio dalla potenza all’atto, all’operatore che possiede i segreti delle leggi magnetiche. Le altre fonti della sapienza arcana sono la Cabbala ed i Tarocchi, le sole in grado di svelare l’ontologia “matematica” sottesa al fenomenico. Dietro alla fugacità del mondo del divenire, si cela un ordine perfetto ed intelligibile strutturato sulla regolarità delle leggi matematiche. Ma non si tratta tanto di un fondamento metafisico del transeunte, perché qualsiasi causa che genera un effetto è al tempo stesso  contrapposta al prodotto. il matematismo ontologico inerisce, viceversa, anche al mondo del divenire, dell’inganno fenomenico: “le lettere sono idee assolute. Le idee assolute sono numeri. I numeri sono segni perfetti. Unendo le idee ai numeri, si può operare sulle idee come sui numeri ed arrivare alla matematica della verità”. Il lettore colto coglierà in questo passo dei rimandi alle suggestioni lulliane sull’Ars Combinatoria, al tentativo metafisico di determinare induttivamente i segni elementari all’origine della complessità. La celebre “dottrina dei due mondi” - il mondo sensibile soggetto al divenire e quello ultramondano dell’ipostasi metafisica - è stata divulgata in Occidente da Platone, anche se la sua elaborazione risale ulteriormente a ritroso nel tempo a Pitagora, l’orfismo, e ai viaggi di qualche sapiente in Egitto.

Nel carteggio si trovano degli spunti interessanti, come quando Lévi ci ricorda che la prima lettera dell’alfabeto ebraico Aleph  simbolo dell’Unità mistica nelle sue quattro applicazioni - universale, relativa, vivente, visibile - è raffigurata da una croce leggermente inclinata che simboleggia il gesto del piegarsi, dall’alto in basso,  nell’offerta del dono della conoscenza divina all’uomo. Tuttavia, l’unità sintetica è simboleggiata dal numero dieci, dallo Jod. Éliphas Lévi approda quindi ad una metafisica monistica, perché è dall’unica sostanza, dall’Identico Dio, che scaturisce il Tutto. Le serie numeriche sono riconducibili all’Unità Jod che le genera e le comprende; solo successivamente si forma per emanazione la dualità e la scissione dicotomica del fenomenico, perfettamente simboleggiata dal doppio Aleph bianco/scuro, così come dal simbolo cinese dello Yin e dello Yang. 

Lévi ritorna anche a perpetuare gli stessi errori già palesati nei precedenti scritti. Come quando ripete che la Luce universale, manifestazione esteriore del Verbo, si specifica differenziandosi secondo gli enti  attraversati. Così la stessa Luce universale diventa luce astrale negli astri e luce magnetica “negli esseri che producono gli astri”, salvo poi continuare ad usare allegramente il termine di   “luce astrale” per definire tutti questi casi. In altre parole prima definisce un genere universale e le sue applicazioni specifiche, poi confusamente inizia a chiamare il primo con il nome di una delle seconde. Questi slittamenti semantici delle definizioni introdotte possono sconcertare più di un lettore ed in effetti l’aspetto paradossale di questa omonimia gergale è che l’autore stesso indica i significati che vuole dare ai termini, salvo poi disconoscerli, confonderli o addirittura invertirli, già poche righe più sotto. In questo modo, il lettore si trova a dover fronteggiare un’enorme confusione di vocaboli che vogliono dire il contrario di tutto, ed è costretto ad uno sforzo interpretativo addizionale. Non si può proprio sostenere che Éliphas Lévi sia stato un buon prosatore. Il lettore deve dunque abituarsi a pensare che quando Lévi parla della “luce astrale” in realtà intende riferirsi alla “luce universale”.

Continuando nelle sue lezioni Lévi arriva a tratteggiare un altro punto essenziale, che dimostra ancora una volta l’importanza che ha nel suo pensiero la conoscenza magnetica. Egli discorrendo delle tre modalità d’espressione estrinsecate dalla sostanza monista - ossia dei tre principi alchemici dello zolfo, del mercurio e del sale - riconosce che la Grande Opera non è certamente la produzione materiale dell’oro, ma il controllo del processo della materia universale. Quest’ultima è unica e sempre in movimento nelle direzioni più diverse. Mediante il potere magnetico l’iniziato può controllare il movimento e dirigerlo a suo piacimento, a patto di essere riuscito ad ottenere quell’equilibrio interiore e quella conoscenza di cui Lévi ha più volte parlato: “La luce astrale, divenuta luce vitale o magnetismo nei viventi, è una calamita di grande potenza, essa attira e respinge gli oggetti che gli indica l’istinto, piuttosto che la volontà. Le medium sono delle calamite sregolate”. Lévi respinge la possibilità di una gnosi diretta dell’Essere supremo, perché Dio sfugge alle leggi dello spazio e del tempo. In realtà noi possiamo arrivare a conoscere soltanto un riflesso di Dio, perché Egli si specchia nella Sua Sapienza ed è quest’immagine doppiata il dono della gnosi. La seconda Sephirot Hokmah “Sapienza”, quindi, non è altro che la trasposizione allegorica dell’aristotelica concezione del pensiero divino che contempla sé stesso, mentre la conoscenza umana passa piuttosto per la terza Sephiroth Binah “Intelligenza”. Secondo l’Albero della Vita cabbalistico, l’uomo è destinato a cogliere soltanto il riflesso del pensiero divino, ma se erroneamente scambia il Doppio con l’Autentico è condannato a vivere nell’ombra e nell’ignoranza. Il sapiente è in grado quindi di distinguere la Luce dall’Ombra, l’Ente dal  Riflesso, ma il superamento sintetico delle dicotomie del mondo fenomenico spetta solamente all’autentico Messia: “Così l’armonia nel binario o la realizzazione creatrice dell’equilibrio universale, la manifestazione di ogni idea in ogni forma, e la identificazione dei sessi in un matrimonio veramente uno e indissolubile, tale deve essere, in effetto, il Messianismo o il regno del Cristo come Messia”. Il Messia, dunque, per Lévi, è colui che restaura l’Unità originale scissa dalle antitesi del mondo sensibile: “allora i due sono uno; allora ciò che è interiore diventa esteriore; allora non vi è più né uomo né donna; vi è l’essere umano, completo ed unico in due metà inseparabili”. Éliphas Lévi in questo passo si richiama alla versione platonica del mito dell’Androgino, scisso da Zeus in due metà anelanti al ricongiungimento unitario Ma è nella lettera del 26 marzo 1862 che si registra una sorprendente affermazione. Spiegando al suo allievo il valore del ternario, Lévi asserisce che nella Cabbala “cristiana primitiva” la trinità originaria è stata manipolata, perché è stata sostituita la persona del Figlio a quella della Madre. Si sarebbe introdotta perciò la triade Padre/Figlio/Spirito in luogo della primordiale Padre/Madre/Spirito, e questo semplicemente per rimuovere la costellazione di idee che da sempre richiama l’idea del Femminile. In altre parole le idee di passività e cedevolezza, tipiche dell’archetipo materno, sarebbero state ritenute dai primi cristiani non adatte a rappresentare il divino, in quanto l’Uno deve cancellare da sé ogni traccia di scissione. Ad onor del vero, è già un errore parlare  di una Cabbala “cristiana primitiva”, perché la Cabbala cristiana è un adattamento dell’originale Qabbalah giudaica, operata da alcuni umanisti del quattrocento, il più famoso dei quali è Pico della Mirandola. Si tratta quindi di una sorta di ermeneutica cristiana agli originali testi della mistica giudaica.  Inoltre, se l’archetipo della Grande Madre, secondo alcuni autori come Eliade, richiama la priorità dei riti agrari e quindi l’invenzione dell’agricoltura, al suddetto passo di Lévi si potrebbe concedere il beneficio del dubbio, se non fosse che la pessima abitudine dell’autore di non riportare le fonti, annulla qualsiasi tipo di indulgenza verso le sue asserzioni. Se in ogni suo scritto Éliphas Lévi si limita ad asserire non citando mai le fonti, meno che mai si può sperare che possa incominciare a farlo ora in un carteggio con un allievo, in cui  preferisce, al contrario,  conferire un velo di mistero alle proprie affermazioni. In ogni caso le tesi di Eliphas Lévi, in assenza di riferimenti bibliografici, rimangono non dimostrate storicamente; anche se proprio ai giorni nostri altri autori hanno iniziato ad indagare sulla strana rimozione, operata dalla Chiesa Romana, dell’originario principio Femminile dal Cristianesimo delle origini. Comunque sia, a detta di Lévi, la scelta per l’ipostasi del Figlio garantiva maggiormente il richiamo all’idea dell’attività, più consona al Principio divino.

Nella lettera del 2 aprile, Éliphas Lévi conferma che quello che intende con “Luce universale” - o “astrale”, secondo la nota reiterazione della traslitterazione semantica - è qualcosa di più della stessa luce come viene comunemente intesa dalla scienza, ma anche dal senso comune: “La luce universale rivela le sue quattro proprietà analoghe alle lettere del santo tetragramma, in quanto  serie distinte di fenomeni che si chiamano elettricità, magnetismo,  calore, e la luce o splendore. Poiché quello che i nostri fisici moderni  chiamano luce non è che uno dei fenomeni della luce, l’irradiazione visibile”.  Si tratta dunque di una sorta di sostanza primordiale, onnicomprensiva, ma capace di accumularsi in direzioni determinate mediante l’influsso di correnti magnetiche prodotte inconsapevolmente o meno dagli esseri viventi. Negare la possibilità che in alcuni punti dello spazio possano verificarsi delle concentrazioni magnetiche di luce astrale, ammettendo al tempo stesso anche l’onnicomprensività della materia universale, porterebbe a postulare una sorta di ricaduta parmenidea nell’Essere come sfera immobile ed eterna. Si dovrebbe rendere conto della possibilità del divenire all’interno dell’assenza di spazio, saturato di mathésis universale, perché il tempo è possibile solo in presenza di fratture epistemiche e discontinuità spaziali. in altre parole, senza soluzioni di continuità tra essere e non-essere, presenza ed assenza, il divenire non è possibile, perché la temporalità è comunque l’occupazione di uno spazio vuoto o la regressione da uno saturo di sostanza. Il problema metafisico, com’era da aspettarsi, non sfiora nemmeno la mente di Éliphas Lévi, troppo intento a dare sfoggio di cultura davanti all’allievo. L’unica “ancora di salvataggio” che possiamo lanciare all’autore è quindi quella di ipotizzare la presenza di discontinuità ontologiche all’interno dei topoi attraversati dai flussi magnetici: ma non nel senso di una plausibilità per punti assoluti di saturazione ed assenza di luce, bensì relativa. Vi sarebbero dunque dei centri di maggior concentrazione magnetica, ma non delle zone completamente svuotate di luce astrale. Solo questa possibilità salva la teoria di Éliphas Lévi dall’impasse del monismo ipostatico. Nel proseguo della lettera, Lévi traccia una serie di riduzioni progressive per induzione all’unità, dapprima riconducendo i cinque sensi al senso interno e a quello esterno - il cui comune denominatore chiama “tatto”- successivamente riducendo i quattro elementi al fisso, al fluido ed al volatile, poi allo stabile ed al mobile, infine alla sostanza. Come d’abitudine l’occultista francese si guarda bene dal dare spiegazioni all’attonito barone, che egli al contrario reputa “il più avanzato in teosofia” trai suoi allievi. Ma è tutto il “corso”  di filosofia occulta di Éliphas Lévi a fare acqua, perché l’autore si dimostra superficiale, approssimativo e fumoso fino all’esasperazione. Cerchiamo un ulteriore esempio. Nella lettera del 1 maggio, Éliphas Lévi sostiene che “Il nome di Dio è in quattro lettere in quasi tutti i popoli del mondo: JHVH per gli ebrei; ZEUS per i Greci, ALLAH ( le cui lettere sono eventualmente 5 e non 4, N.d.R.); AURA per i Persiani; THMD per i Magi; ADAD per gli Assiri, TARRA o TARO per i Ginnosofisti. il segno di Dio è dunque essenzialmente la croce; anche prima del cristianesimo”.

Ora, a parte il fatto che non si capisce perché solamente in alcuni casi le vocali non debbano essere considerate come lettere, ma come si può dichiarare che “Il nome di Dio è in quattro lettere in quasi tutti i popoli del mondo”, analizzando un elenco comprendente soltanto sei civiltà antiche più una scuola di sapienti? Si tratta di un’evidente generalizzazione affrettata.

Nella lettera del 30 maggio Éliphas Lévi ritorna ad evidenziare la centralità della figura di “Maria”  identificata come incarnazione “femminile” del Verbo - quella “maschile rappresentata da Gesù -  in grado di ascendere in Cielo con il Redentore.  Il Cristianesimo avrebbe sempre disconosciuto e rimosso questa centralità, tuttavia Lévi finalmente si prodiga ad indicare come fonte della credenza un passo del Cantico dei Cantici “Quae est illa quae procedit sicut aurora consurgens, innixa super sponsum”, tradotto dall’occultista francese con “Chi è questa bellezza che sale nel cielo appoggiata al suo amato bene come l’aurora che annuncia il levar del sole?”.

La fonte di Lévi è quindi solamente un passo, tradotto peraltro in maniera approssimativa, in cui l’autore identifica arbitrariamente  “illa” con la Vergine.  Lévi non presenta dei documenti o dei testi per  avallare l’ipotetica allegoria, ma solo questo breve passo allegramente decontestualizzato dalla struttura del poema ed in cui opera un’evidente forzatura esegetica. Nessun dubbio che Éliphas Lévi stia parlando per metafore  per far colpo sul suo allievo e millantare così conoscenze superiori, ma la sua caduta nel dogmatismo appare irrefrenabile, così come in generale una desolante assenza di metodologia a supporto di bizzarre e acritiche asserzioni. Nella parte finale del Corso di Filosofia Occulta, Lévi inizia la sua lezione sul pentagramma e finisce trattando del Diavolo. Il pentagramma è definito anche la “stella dell’Epifania”, i cui vertici sono i Re Magi, la Vergine Maria e Gesù. Si tratta quindi di un simbolo del sapere divino, ma qualora la stessa stella venga rovesciata acquista subito un altro significato, diventa espressione del demoniaco. Il pentagramma rovesciato è il simbolo del Diavolo, perché in esso si iscrive la figura del caprone, il tipico animale con cui Satana ama manifestarsi, una delle sue forme predilette. Nel definire il Diavolo, Lévi aderisce alla tipica visione giudeo-cristiana, con la notevole differenza che egli contesta  l’esistenza effettiva dell’entità diabolica “Satana”. Nega cioè che il Diavolo sia uno spirito vivente o un’incarnazione metafisica, ma con una presa di posizione “nominalista” lo riduce ad essere il simbolo della regressione compulsiva. Il Principe delle Tenebre non è altro che “lo spirito d’accecamento, di fatalità e di vertigine”, lo spreco dell’esistenza nella dispersione dei desideri senza fine, la disintegrazione atomistica della Coscienza nei  vortici demoniaci delle correnti magnetiche sregolate, “un’analisi senza sintesi”. abbandonandosi al Diavolo, l’uomo regredisce alla stadio bestiale in cui le pulsioni si scatenano libere e selvagge contro i bastioni dell’Io sublimante: in una parola, per Éliphas Lévi il Diavolo è l’archetipo dell’irrazionalità assoluta, della sragione. Curiosamente Lévi nel ripudiare l’esistenza sostanziale del Diavolo, pur ammettendo l’influenza corruttrice del demoniaco all’interno delle regressioni compulsive più bestiali, in qualche modo anticipa - malgrado le notevoli differenze teoriche - la futura corrente tardo novecentesca del satanismo “razionalista”. Nel satanismo contemporaneo, il filone “razionalista” identifica Satana con l’archetipo della trasgressione “libertina” contrapposta alla morale convenzionale, all’interno di un progetto di slancio prometeico teso ad oltrepassare i limiti dell’umano e ad ottenere la realizzazione di una super-coscienza magica e sciamanica. Questa corrente però si rifiuta di fornire una risposta positiva all’esistenza concreta di Satana, ossia mantiene un atteggiamento essenzialmente “agnostico”, in disaccordo con il filone del satanismo “occultista” che viceversa crede nell’individualità effettiva del Diavolo. Éliphas Lévi, pur non potendo essere qualificato in nessun modo come satanista, preannuncia la successiva riduzione simbolica dell’Avversario in virtù dell’identificazione con il caos e la dissoluzione, fornendo così spunto alla posteriore ala razionalista: “è così che Dio non può essere nel diavolo, perché questi è il tipo della irrazionalità più assoluta. Dunque il diavolo esiste come concezione negativa dello spirito, ma come creatura di Dio non esiste certamente”.  Va da sé che non esiste alcuna tangenza sostanziale tra l’occultista francese e il satanismo; ma del resto per chi scrive è inevitabile il rischio di diffondere idee che si presteranno ad essere deformate e stravolte. In ogni caso per Éliphas Lévi il Diavolo è l’espressione dell’irrazionalità umana - connaturata qui come si è detto con il caos delle compulsioni bestiali - mentre per il satanismo “razionalista” le stesse pulsioni s’inquadrano in un paradigma antropocentrico di liberazione prometeica dell’uomo. Ovviamente le espressioni “razionalismo” e “irrazionalismo” acquistano significati differenti all’interno del discorso di Lévi e in quello dei satanisti. Per l’occultista francese, l’irrazionale è il mondo oscuro delle pulsioni selvagge, contrapposto al dominio della morale e della cultura. Il satanismo contemporaneo, invece, può attingere a piene mani da tutto il filone dell’irrazionalismo novecentesco e qualificare come “razionale” e “umanesimo” la dialettica della liberazione delle compulsioni. Per Éliphas Lévi, uomo dell’ottocento, invece il Diavolo è ancora da condannare perché è il simbolo della bestialità umana. 

Il carteggio si chiude, peraltro, con un’apparente presa di posizione anticattolica ed anticlericale, ancor più sorprendente se si ricordano i motivi che avevano indotto l’autore a distaccarsi dalla Massoneria. Tutto d’un tratto Lévi contesta l’insegnamento seminaristico, gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio, e deride causticamente il sacerdozio, descrivendo “il prete che ride egli stesso di quello che insegna, e che trascina, la sua ipocrisia malcelata come una sottana sbottonata”. In realtà, il vero bersaglio di Lévi non è la verità cristiana, ma gli strumenti attraverso i quali viene divulgata la dottrina. Egli contesta la teologia, il suo impianto aristotelico e tomistico strutturato nella produzione tipica dell’età scolastica. Per Lévi, la teologia in quanto disciplina mutuata dalla riflessione filosofica, non è in grado di cogliere le verità rivelate che solo possono essere svelate dalla purezza della fede. La teologia, forgiata dalla stessa ratio filosofica che ha innervato lo sviluppo del possesso scientista della Natura, non è adatta a penetrare i misteri della Rivelazione, ed è allora necessario ritornare a dividere la fede dalla scienza. Per Lévi le verità della fede, non possono essere colte dalla scienza, e viceversa. Ci si potrebbe domandare com’è possibile sostenere questa posizione in raffronto al sincretismo accentrato sulla commistione tra mondo dell’arcano e spiegazioni scientifiche, che l’autore  ha sempre dimostrato di prediligere. Semplicemente, Lévi considera l’arcano dimostrabile con il metodo scientifico, alla stregua di semplici fenomeni naturali ancora sconosciuti. Al contrario, egli reputa le verità rivelate dal Cristianesimo appartenenti ad un altro ambito, alla sfera della fede completamente eterogenea ai fenomeni magnetici e probabilmente alla stessa magia, che per lui rimane essenzialmente una scienza. Con quest’interpretazione, la difficoltà sembrerebbe svanire perché ancora una volta, fede (Cristianesimo) e scienza (Magia) sono destinate a non incontrarsi. Si deve tuttavia ricordare a corollario di quanto sostenuto da Lévi, che solo dal XIII secolo la teologia ha preso questo tipico sviluppo aristotelico, mentre in precedenza esisteva una teologia “simbolica” molto prossima a ciò che noi oggi qualifichiamo come “esoterico”.

Nel Libro dello Splendore, uscito postumo dopo la sua morte, Éliphas Lévi tratta principalmente del trattato la  Grande assemblea del Sefer ha-zohar. Come nel caso del Corpus Hermeticum, anche lo Zohar era inizialmente ritenuto più antico di quanto non fosse in realtà. Il testo è un commento del II  d. C. alla Torah del dottore palestinese Šim’on bar Yoha’y. Dopo lunghe controversie tese a smentire o a confermare la presunta datazione, Gershom Scholem attribuì l’opera al mistico castigliano Mosêh de León (1240-1305). Tuttavia, alcuni studiosi hanno identificato in Yosef Giqatilla (1248-1325) il misterioso autore del commentario; mentre un’ulteriore corrente ha visto nello Zohar l’opera non di una singola mano, ma piuttosto di un gruppo di mistici. La Grande assemblea, insieme alla Piccola Assemblea, costituisce un testo propedeutico fondamentale alla qabbalah, al cui interno sono riproposte le visioni estatiche del cenacolo di Šim’on. Tuttavia nel testo di Lévi si presenta subito una prima difficoltà: egli traduce  “Grande Sinodo” -  a cui è dedicato la parte prima del volume - con Idra Zuta, mentre ci risulta che l’espressione corretta sia piuttosto Idra rabba - viceversa “Piccola assemblea” si dovrebbe tradurre proprio con Idra zuta -. In attesa di risolvere il dilemma, passiamo ad analizzare alcune considerazioni dell’autore nella sua prefazione. Éliphas Lévi ritiene che gli ebrei possedessero le chiavi di una antica conoscenza, che solo in parte si sarebbe trasmessa nella costruzione paolina del nucleo cristiano originario, costituito dall’autentica predicazione di Gesù. Parte di questo sapere primigenio  sarebbe, invece, conservato nel Vangelo di Giovanni. Sappiamo oggi che alla luce delle recenti scoperte a Qumran nel 1947, potrebbero essere ricondotti alla dottrina degli esseni non solo gli elementi concettuali e lessicali delle scritture di Giovanni, ma anche l’essenza dell’insegnamento autentico di Gesù. È una questione però a cui devono rispondere gli esperti che si occupano a tempo pieno del problema: è irragionevole che le risposte siano fornite da sedicenti esoteristi esponenti di conventicole contemporanee, quindi tantomeno si potrà pretenderle da noi, che restiamo dei semplici storici delle correnti esoteriche occidentali. Nella Prefazione, l’autore inoltre auspica una sorta di nuova alleanza tra Giudaismo e Massoneria:

La pubblicazione di quest’opera farà comprendere l’odio implacabile dei preti cattolici verso la Frammassoneria che è il giudaismo riformato secondo il pensiero di Gesù e del suo apostolo prediletto Giovanni Boanerges, la cui rivelazione cabalistica è stata sempre il vangelo del cristianesimo occulto e delle parole di gnosticismo non profanato. A tali scuole si riattaccano i giovanniti, i templari non idolatri e gli altri iniziati della massoneria occulta. Là sono le chiavi dell’avvenire, perché là sono conservati i segreti della rivelazione unica e universale, di cui il giudaismo, la prima e forse la sola tra tutte le religioni, ha predicato al mondo la dottrina”.  La Massoneria dunque non sarebbe altro che una sorta di “giudaismo riformato”, ossia   “la prima e forse la sola tra tutte le religioni” ad aver “predicato al mondo la dottrina”. Nella Cabbala cristiana si trova il legame tra l’iniziazione massonica, il Cristianesimo “occulto” e la saggezza giudaica. La “cristianizzazione” della Qabbalah operata a partire dal 1492 dagli umanisti rinascimentali - il più famoso dei quali è senza dubbio Pico della Mirandola - s’impone come nuova forma di letteratura tesa a adattare al milieu cristiano i testi canonici dei maestri rabbini. La Massoneria avendo fatto propri gli insegnamenti dei cabbalisti cristiani e dell’ermetismo alessandrino, può aspirare a qualificarsi come un tipo di “giudaismo riformato”, in quanto il suo simbolismo è ispirato da quello delle due correnti. Gli stessi vertici religiosi del Giudaismo devono riconoscere in questa nuova veste l’identità massonica:   “il giudaismo deve tendere alla Frammassoneria una mano fraterna, perché la professione di fede dei massoni non atei è il simbolo di Maimonide, e i cristiani devono trovare nei riti degli alti gradi tutta la rivelazione allegorica di Gesù Cristo. Nella Frammassoneria l’alleanza e la fusione del giudaismo cabbalistico e del cristianesimo neo-platonico di S. Giovanni è già un fatto compiuto”. Il Giudaismo ed il Cristianesimo quindi si ricongiungono e si fondono armonicamente nell’insegnamento massonico, innervato dagli assunti dottrinali dei cabbalisti cristiani. Tuttavia all’autore non sfugge che questa sinergia eclettica potrebbe realizzarsi negli alti gradi, piuttosto che nella Massoneria “azzurra”. I sistemi massonici degli alti gradi - “regolari”, “irregolari”, o di “frangia” - contengono elementi che possono essere facilmente ricondotti all’ ”esoterico”, mentre la Massoneria “azzurra” risente di un retroterra culturale fortemente influenzato dal pensiero dei Lumi. Nelle Costitutions (1723) di James Anderson, si affrontano tanto gli “Obblighi di un Massone”, quanto la storia mitica dell’Istituzione. Nonostante questo, la storia mitica resterà sempre trascurata nelle Obbedienze massoniche, che preferiranno sempre concentrarsi sugli aspetti deistici degli Obblighi. Viceversa i sistemi degli alti gradi hanno sempre cercato di contrastare il filone illuminista-razionalista, con tentativi di autolegittimazione tesi a ricercare nel più lontano passato le proprie origini mitiche, agganciandosi a tradizioni particolari. Soprattutto lo “Scozzesismo”, ossia il Rito Scozzese delle Massonerie “regolari” ha sempre fatto risalire la propria origine al confluire di cavalieri del Tempio nelle Logge dei Costruttori, in seguito alla soppressione dell’ordine da parte di Filippo il Bello. La Massoneria di frangia “egiziana” fondata da Cagliostro ha invece sempre guardato alla antica sapienza faraonica per articolare la filiazione dei propri riti. Non è questa la sede per approfondire le differenze tra ciò che si può definire “regolare” , “irregolare” o di “frangia”. In ogni caso la presenza di ciò che può essere definito un “esoterismo massonico” è rinvenibile negli alti gradi, mentre un certo simbolismo iniziatico non basta a regalare la stessa qualifica anche alla Massoneria “azzurra”. 

Al di là delle considerazioni che è possibile fare sull’esoterismo massonico - o meglio sulla Massoneria esoterica - notiamo che Lévi nell’introduzione fa riferimento alla sezione sulla Genesi tradotta da Guillaume Postel. Non sappiamo tuttavia se avesse avuto una conoscenza diretta anche della versione di K. Von Rosenroth, Kabbala denudata, Seu Doctrina Hebraeorum trascendentalis et metaphysica atque theologica. In effetti, l’occultista francese ama sovente dare sfoggio di conoscenze, alternando citazioni di opere ed autori all’interno del suo stile di scrittura enfatico, caratteristico della letteratura ottocentesca. La pessima abitudine alla citazione superficiale  del nome dell’autore o dell’opera - senza alcuna trascrizione dei  passi citati o dei concetti trattati - ingenera più di un sospetto che l’occultista francese si limiti a delle conoscenze indirette, di seconda mano. In altre parole, che non abbia veramente letto i libri che cita.

In ogni caso, anche la lettura léviana dello Zohar presenta qualche forzatura. Prendiamo ad esempio, i passaggi concernenti la descrizione antropomorfica di Dio, in particolare il passo sulla “visione” dei capelli divini. Nel racconto dell’opera, Šim’on bar Yoha’y sta commentando la Torah assieme ad altri dottori. Nella letteratura rabbinica, la Torah è assimilata alla sapienza divina e precede la creazione del mondo: è un velo che la luce della conoscenza celeste attraversa nell’atto della manifestazione esteriore, restandone irrorata. Come ricorda Giulio Busi,  nell’ebraismo un vincolo indissolubile viene stretto tra la  Torah ed il mistero della creazione. Nella dissertazione di rabbi Šim’on riguardo alla morfologia della testa divina, da quest’ultima scendono fluenti capelli che ricoprono ambedue i lati. La fronte del cranio è assimilata alla Volontà divina, ma anche all’amore: “Ma lassù, quando si scopre la fronte, si trovano l’amore e la volontà perfetta, ogni sdegno viene messo a tacere e viene dominato al suo cospetto”. Ora Éliphas Lévi pur riconoscendo l’equiparazione simbolica della fronte di Dio all’amore universale, inserisce nella traduzione un curioso passaggio che non esiste nell’originale: “Tra le due parti della capigliatura suprema è il sentiero dell’alta iniziazione, il sentiero del mezzo, il sentiero dell’armonia dei contrari. Là tutto si comprende e si concilia. Là il bene solo trionfa e il male non esiste”. Tuttavia, non crediamo che Lévi sia arrivato ad inserire arbitrariamente un passo spurio nella versione zoharica con il preciso intento di avallare il suo discorso sull’iniziazione e l’occultismo, quanto piuttosto che sia caduto nell’eccesso di un’interpretazione forzatamente libera del significato intrinseco dell’allegoria divina. Si tratterebbe quindi di una mancanza di prudenza ermeneutica, piuttosto che di un’infrazione filologica vera e propria. L’occultista francese carica quindi il testo di ulteriori significati iniziatici ed esoterici, anche senza una reale necessità. Lo Zohar può essere considerato come una teosofia giudaica, contrassegnata dalle tre idee fondamentali che caratterizzano la corrente, ossia il triangolo Dio/Uomo/Natura, il primato del mito, l’accesso diretto ai mondi superiori. Lo stesso Giulio Busi ricorda che il senso dell’espressione “mistica” nell’ebraismo assume una connotazione radicalmente diversa, da quella insita nell’omonima parola occidentale. Il mistico cerca l’immediato trascendimento delle immagini  in vista della fusione con il  principio divino,  mentre lo gnostico interiorizza, e rielabora all’interno di una dottrina, i segni della scala di Giacobbe. Il mistico abbandona subito le immagini che ne delimitano il percorso ascensionale, mentre lo gnostico le enfatizza. Il seguace della qabbalah, attraverso i procedimenti della gimatreya, della ãtbas, del notariqon, s’immerge nell’infinita combinazione dei significati che scaturiscono dalle lettere della Torah. Le lettere acquistando il valore di teofanie, manifestazioni della potenza divina, non possono essere trascese dall’oltrepassamento mistico dell’immagine. La lettera torahica proprio perché ricettacolo ed immagine divina non sarà mai superata dal cabbalista, che estrapola la conoscenza dal potere intrinseco alla realtà grafica delle lettere. Ecco perché la qabbalah è una mistica sui generis ed è più corretto inquadrarla come una dottrina e corrente esoterica. Tuttavia lo Zohar, uno dei testi fondamentali da cui prende ispirazione la qabbalah, è percorso principalmente da immagini, da visioni. Come la descrizione, ricordata sopra, della fronte divina, simbolo dell’amore universale e della volontà compiuta, o la percezione degli occhi di Dio. I due occhi divini sono in realtà soltanto uno, perché solamente l’occhio superiore è sempre vigile e non dorme mai. Quest’occhio simboleggia l’onniscienza e la provvidenza divina. Al contrario, l’occhio inferiore, essendo privo di luce propria, riceve quella del superiore: L’occhio inferiore simboleggia la somiglianza umana al Creatore; se l’occhio superiore non scrutasse l’inferiore, purificandolo dalle sue imperfezioni, il creato cesserebbe di esistere: “ Quello sonnecchia spesso, perché è fatto a immagine dell’uomo, ed è a lui che si parla quando si dice: Signore svegliati e porta i tuoi sguardi su di noi”. In termini platonici, è attraverso l’occhio inferiore che l’uomo partecipa della sua natura divina, poiché è lo sguardo che discende   dall’Alto a ri-unire la copia umana all’Archè. I due occhi privi di palpebre sono un in verità uno solo, sempre aperto e gioioso, mentre la dualità fenomenica è solo apparente e limitata al mondo del divenire, ricondotta all’unità dal principio trascendente. L’assunto dell’occhio singolo esprime dunque una costruzione monista in cui il molteplice scaturisce dall’Unico; solo il regno caduco e transeunte della physis soggiace all’illusione dicotomica che inganna e raddoppia ciò che in realtà è identico, cioè l’occhio singolo. Dio inoltre ha tre teste - che si fondono in un’unica testa superiore , da cui fluenti e candidi capelli scendono “e vengono a rischiarare la notte” -  e due facce. La prima faccia contempla il segreto dell’En sof, ed è chiamata Arik anpin, “Lungo di volto”; mentre la seconda scruta l’esterno ed è conosciuta come Ze’er anpin, “Piccolo di volto”.  Il primo anticipa la creazione e la conoscenza, viceversa il secondo scruta il creato. Lo Arik anpin è la fonte centrale della luce che irradia da destra tutto il molteplice, mentre soltanto con lo Ze’er anpin si determina la dicotomia tra la destra della benevolenza e la sinistra che è rigore: per questo il secondo volto è anche denominato l’“Irascibile”. La visione antropomorfica dell’Idra rabba prosegue con la descrizione di altre parti del corpo divino come i capelli e la barba, simbolo quest’ultima di purezza e saggezza. In queste pagine osserviamo come la tecnica delle corrispondenze - uno dei capisaldi del pensiero esoterico - contribuisca a rendere rappresentabile all’occhio umano il mistero del Trascedents. L’analogia tra micro e macrocosmo, aiuta il sapiente a raffigurare l’Essere supremo ad immagine e somiglianza dell’uomo, con gli stessi attributi corporei che rimandano analogicamente ad attributi divini perfettissimi ed elevatissimi, posseduti dai mortali soltanto in una misura imperfetta ed incompleta. Lo Zohar, ad esempio, descrive così i capelli di Dio: “ Ogni ciocca è composta da trecentonovanta peli […] In tutte le ciocche sono distribuiti trentuno mondi forti, che dominano e sottomettono: trentuno si estendono da un lato e trentuno dall’altro. Ciascuno di questi mondi si divide in mille mondi di desiderio di grande delizia: tutti sono nascosti nel principio della barba, che include la forza” . Mentre i capelli e la barba dell’Arik anpin sono assolutamente di luce, l’“Irascibile”- pur possedendo egli stesso questi attributi divini -  predilige svelarsi agli uomini alternando clemenza e rigore, avvicendando così “un lato buono e uno cattivo, un lato di destra e uno di sinistra, un lato di misericordia e uno di rigore”. Il perfetto equilibrio dei due lati dello Ze’er anpin, è cabbalisticamente contrassegnato dal bilanciamento nell’albero sefirotico di hesed, sefer dell’Amore, con gevurah, sefer della potenza. Quando si realizza questa contrapposizione ipostatica, nel mondo degli uomini regna la clemenza e la misericordia; ma quando il lato sinistro di gevurah prende il sopravvento, l’ira divina si riversa sul Creato. L’identificazione antropocosmica prosegue con la descrizione dei capelli e della barba divina. I capelli sono morbidi e soffici, perché sono il medium del cervello di Dio; attraverso di essi la Sapienza scorre dall’Arik anpin allo Ze’er anpin, dal volto superiore a quello inferiore. La stessa lunghezza dei capelli assicura l’onnipresente circolazione della sapienza, che, attraverso di essi, è estesa a tutto il Creato. I capelli divini sono tutti bianchi come la neve, colore della teofania della grazia, della rivelazione, oltre che della conoscenza assoluta. Anche i peli della barba sono candidi come i capelli, ma al contrario di questi sono duri. La robustezza della barba è chiarita dalla necessità di fare discendere dal volto superiore l’inflessibilità dei tredici principi di misericordia elencati dal profeta Mikéas (“Qual Dio è come te - primo principio - che togli l’iniquità - secondo principio, e passi sopra alla colpa - terzo, ecc.. Le trentuno ciocche dure corrispondono numericamente alla parola El (“Dio”) e sottomettono trentuno mondi, a loro volta ripartiti in altri mille di desiderio e delizia. La teofania allegorica della barba divina racchiude tutto il processo necessario della discesa dal Principio al molteplice.

Inizio del compendio di Éliphas Lévi in sintesi, questo cenacolo di rabbini sta disquisendo su una proiezione antropocosmica. Dio - il Principio creatore dell’Universo - è raffigurato con sembianze antropomorfiche, ma nel pensiero messianico, come nella teologia cristiana, esiste da sempre il problema di fornire una risposta alla presenza del male. La teodicea è qui affrontata postulando la scissione dualista del principio unico, attraverso lo stratagemma delle due teste o facce divine. Qualora ci soffermassimo esclusivamente sul dualismo ontologico inerente all’essenza divina, cadremmo vittime di una lettura superficiale e corriva, perché la contrapposizione del viso d’ombra al viso di luce è solo apparente. Il viso che guarda i delitti dell’uomo e si adira furiosamente è solo l’ombra, il velo del viso di luce sempre raggiante e pacifico, autentico emblema- quest’ultimo- dell’essenza divina che contempla, sorridendo, la giustizia eterna. Il volto d’ombra, da Lévi denominato anche Microprosopo  dal greco “piccolo volto, prósõpon”, è il riflesso speculare alla natura umana, è il Dio che rassomiglia alla creatura perfetta. Il volto d’ombra, in fondo, non è altro che la feurbachiana proiezione antropocentrica nell’Immaginario religioso, o quello che Nietzsche definì come il dionisiaco, il sentimento tragico della vita, la scissione inerente all’anima umana cui si richiama lo stesso Lévi: “Le quattro lettere del nome di Jéhovah - rappresentato con due visi come Giano. L’uno è giovane e bello come quello d’Apollo, l’altro è contorto e grottesco come quello di Sileno. Apollo e Bacco caratterizzano i due principi dell’esaltazione presso gli uomini: l’entusiasmo e l’ubriachezza”. Ne La nascita della tragedia, Nietzsche non avrebbe potuto esprimere meglio il concetto. Tuttavia a differenza del filosofo tedesco, per Éliphas Lévi il dionisiaco più che l’amor fati esprime il velo, l’ombra della Luce divina, “la sola che sia dato agli uomini di contemplare senza rimaner ciechi per la luce.”. Non è possibile agli uomini comuni di percepire il lume divino, ma soltanto le ombre come i prigionieri della caverna platonica: “il Dio di luce è quello che i saggi sognano; quello d’ombra è quello che sognano gli insensati. […] la faccia che le moltitudini adorano non è che il dietro della finzione divina: è l’ombra posteriore di Dio visdebis posteriora mea”.

Che si tratti di un dualismo apparente, inerente alla dimensione antropologica, è spiegato dallo stesso Lévi, che nega, ad esempio, qualunque tipo di affinità tra la visione del Microscopio e la dottrina manichea: “Questo Dio non è né l’Arimane dei Persi, né il principio cattivo dei manichei […] è un velo fatto all’immagine dell’umanità, di cui Dio stesso si degna di svelare la sua gloria”. Siamo alla presenza, in definitiva, di una sorta di kantiano uso regolativo che postula l’idea di Dio, in luogo di vantarne la dimostrazione teoretica diretta: i deboli sguardi dell’uomo non possono cogliere altro che le ombre (mito della caverna). Secondo Lévi, i due visi divini si contrappongono come se ciascuno fosse il riflesso dell’altro, ma è evidente che il Microprosopo è subordinato ontologicamente al volto di Luce, l’Arik anpin, di cui è appunto l’ombra. Nella Grande assemblea, Šim’on e gli altri rabbini, applicano il principio delle corrispondenze e dissertano sui dettagli dell’immensa figura antropocosmica dai due volti. Tutto ha un senso ed un significato analogico, dai ciuffi dei capelli a quelli della barba, dal naso ai soffi che escono dalle narici. Ogni particolare è importante nella ricerca dei segni e delle corrispondenze simboliche, ogni attributo antropocosmico ri-vela l’epifania divina nel Creato. Così il naso dello Arik anpin soffia la vita eterna, quello del Microprosopo il fumo ed il fuoco dell’ira infernale. Il negativo dunque, inteso come principio del dolore e del male, non è altro che lo Ze’er anpin, il “Dio nero” sovente scambiato per il diavolo, la deformazione caricaturale del viso d’ombra: “a questa grande finzione dei rabbini che l’Arimane dei Persiani, il Dio cattivo dei manichei e il diavolo dei cristiani debbono la loro origine comune”. Lo Ze’er anpin, risvegliandosi, scuote la sua capigliatura crespa facendo tremare il cielo, mentre i capelli dello Arik anpin sono luminosi e morbidi. Ancora una volta, il viso d’ombra, il Dio nero, simboleggia il mondo delle compulsioni selvagge proiettate nell’Immaginario mitico, il sonno della ragione ed il disordine delle emozioni più che un vero e proprio principe degli inferi. La sua collera terribile, ma passeggera, lo rende diverso ad esempio dal Satana di Milton che con gelido raziocinio progetta la dannazione del genere umano. Secondo Lévi non esiste in Dio la volontà di predestinare alla perdizione eterna; la collera del Dio nero è più “volgare” che malefica, ma proprio per questo destinata a scomparire come una perturbazione di fronte all’irrompere dell’arcobaleno: “Il male che offende e irrita il Dio d’ombra non esiste per il Dio di luce. Di fronte all’ordine assoluto, il disordine non esiste”. Del resto, la subordinazione del viso d’ombra a quello di Luce è deducibile anche cabbalisticamente. La barba dello Ze’er anpin contiene nove ciocche e non tredici come quella del Arik anpin, perché il volto d’ombra non può produrre il quaternario, appannaggio esclusivo del volto di Luce. Lo Ze’er anpin può solamente moltiplicare per se stesso il ternario (3 X 3 = 9), tuttavia il nove contiene in essenza la propria negazione:

 “vi sono nove corsi d’angeli e del pari vi sono nove classi di demoni. Il numero nove ha dunque la sua parte luminosa e la sua parte d’ombra; ma il quaternario tetragrammatico è il numero perfetto che non ammette negazione. La negazione del quaternario sarebbe la finzione mostruosa del male assoluto. Sarebbe il Satan dei diavolisti”. Le nove ciocche della barba d’ombra simboleggiano dunque la negazione, l’antitesi,  delle corrispettive ciocche dello Arik anpin (potenza/dispotismo, 1° luce; saggezza/ fanatismo, 2° luce; intelligenza/dogma sottoposto al cambiamento fatale , 3° luce; bellezza/fede cieca, 4° luce; giustizia/vendetta, 5° luce; misericordia/sacrificio volontario, 6° luce; vittoria/abnegazione volontaria, 7° luce; eternità del bene/inferno eterno, 8° luce; fecondità/sterilità, 9° luce). Secondo Lévi il numero dieci non possederebbe il negativo, in quanto numero della creazione. Tuttavia, ancora una volta, l’autore ricorda come il Dio nero, non esista veramente, se non come proiezione delle compulsioni e dei più ciechi terrori dell’uomo, come ombra della radiosità divina appannaggio esclusivo dell’unico vero Dio di Luce. Naturalmente, il Dio nero è più facilmente intelligibile al profano, proprio perché più simile alla sua natura viscerale e carnale; raffigurarsi un Padrone iracondo che si desta di tanto in tanto per tuonare contro i peccati dell’uomo è speculare agli interessi dei preti. Se un elevato livello culturale e spirituale consente di postulare l’esistenza del volto di Luce, non per questo permette di oltrepassare lo stadio della mera formulazione dell’ipotesi di base. Il sapiente sa- a differenza del volgo – che l’Arik anpin, il Dio che non s’irrita mai, è la vera essenza divina: nonostante questo rimane vincolato al mondo della rappresentazione, delle forme sfuocate ed inadeguate rispetto alla ridondante presenza dell’essenza. In altre parole, neanche il sapiente- pur indossando meno catene profane- riesce a fuggire del tutto dalla caverna della finitezza umana:

 “ E se voi mi domandate quale differenza v’ha tra i due vegliardi, io vi rispondo che i due rappresentano un solo e medesimo pensiero. Questi sono i due lati di un’immagine sola: rivolta verso il cielo, l’immagine è serena e splendida; rivolta verso le ignoranze  (sic) e i vizi dell’uomo, l’immagine è minacciante e tenebrosa”. Nella seconda parte, intitolata “La gloria cristiana”, Éliphas Lévi delinea più chiaramente la sua posizione “razionalista” in merito all’esistenza del demonio. Il diavolo non è un’entità, ma una forza impersonale radicata nella menzogna e nell’oscurità deprivata della pienezza dell’essere. Siamo alla presenza quindi di una sorta di “demonologia negativa”: il diavolo come assenza e privazione del principio divino, Satana come ombra del simbolo solare, allegorica raffigurazione dell’idea del bene. Éliphas Lévi postula l’esistenza di una possibile affinità tra il volto d’ombra e l’archetipo diabolico, entrambi proiezioni delle compulsioni e dei terrori umani nell’immaginario mitico: 

“Le intelligenze limitate non compresero questo dio fittizio a due facce così differenti e l’idea di un dualismo assurdo s’introdusse nello spirito di alcuni settari. Di là sorsero i demoni del falso Zoroastro. La faccia di luce fu Orzmudt e la faccia di ombra divenne la testa fatale del capo Animane. Quel giorno fu creato il Diavolo”.  Dunque il diavolo è solo il prodotto di proiezioni collettive. Domandandosi come il Maligno possa attingere la   sua linfa malefica, Éliphas Lévi tenta di elaborare una soluzione di tipo socratico, finendo al contrario per cadere in un’inevitabile aporia. Dio dà all’uomo la possibilità “di scegliere tra le tendenze superiori dell’anima e i desideri che nascono dagli spiriti bassi di una natura limitata ed incatenata a bisogni terrestri. Nessuno può amare il male per il male: noi troviamo alla radice di tutti i vizi l’ignoranza e l’errore”.  Ma la possibilità di scelta deve implicare anche la possibilità di amare e scegliere il male in sé stesso, così come la decisione deve concernere sempre tutti e due i corni del dilemma. Sostenere, come fa Lévi, che alla radice del vizio c’è l’ignoranza, significa ammettere, sull’estensione del modello socratico, che l’alternativa è inesistente e la scelta obbligata. 

Alla fine del Libro dello splendore, Éliphas Lévi illustra due miti appartenenti a differenti contesti storico-culturali. Così dapprima si sofferma su Krishna (La leggenda di Chrisna) e poi sull’assassinio di Hiram (La stella fiammeggiante),  il leggendario architetto del Tempio di Salomone, la cui morte è stata simbolicamente ritualizzata dalla Massoneria azzurra e dal Rito Scozzese Rettificato. In fondo un’ulteriore conferma dell’attitudine sincretista di Lévi, come del resto di numerosi altri autori del XIX e del XX secolo, sempre pronti a mescolare elementi eterogenei nello sforzo costante di rintracciare il filo rosso della favolosa Tradizione primordiale.

 

 

Opere Minori di Eliphas Levi

 

   

 

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