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Una ricerca a cura di IniziazioneAntica
Il Panormita
Qualche anno fa, Josep Piera titolava un suo lavoro su Napoli definendo la città un bellissimo cadavere barocco (*). Il nucleo storico, in particolare, presenta ancora oggi pesanti le ferite dell`incuria e del tempo. Non solo nei tratti una volta pulsanti di vita ed ora abbandonati per il semplice motivo di non essere percorribili in auto, ma anche sul tracciato della Spaccanapoli, per definizione la via più importante dopo il Decumanus maximus, gli scheletri dell`antico tessuto edilizio della Napoli-bene giacciono ai lati dell`uomo della strada. Se non si ha familiarità con l`abitudine di passeggiare con il naso per aria, molte cose sfuggono: i terranei sono l`unica parte degli antichi palazzi che non hanno mai cessato di vivere, almeno sul decumano maggiore (via Tribunali) e su quello a valle (Spaccanapoli). Proprio qui, all`angolo dove giace la copia d`epoca romana del Nilo, il simpatico vegliardo attorniato dai puttini che tentano di dargli la scalata, se si alza la testa si può vedere uno di questi scheletri: il palazzo del Panormita. Dubito che sia diffusa tra il popolo la conoscenza del personaggio, tranne che per l`attribuzione che ad egli si fa della antica costruzione. Devo confessare che è trascorso non poco tempo nell`attesa di riportare all`attualità approfondimento sul Panormita, per la semplice ragione che questo tipo di speculazioni non mi danno altro che nutrimento spirituale (notoriamente necessario ma non sufficiente). Sono qui pronto a bilanciare le sorti della giustizia con questi appunti di viaggio. Panormita è, come noto, un semplice soprannome che testimonia la matrice siciliana del personaggio, che al secolo rispondeva al nome di Antonio Beccadelli. Il Nostro nasce a Palermo nel 1394, da famiglia bolognese, ed a Palermo viene educato. Nel 1419 lascia la città natale e, dopo un breve passaggio per Firenze, raggiunge Siena per studiarvi giurisprudenza. A Siena ha come maestro il canonista catanese Nicola Tudisco, probabilmente lo stesso che troveremo più innanzi come legato della Santa Sede (cfr. pg. 3). Nel 1425 lascia gli studi senesi per proseguirli a Bologna, città nella quale avrebbe dovuto iniziarli fin dalla sua partenza da Palermo. A Bologna rimase fino al primo di agosto del 1427, data nella quale si trasferì a Firenze dove risiede per cinque mesi. Attribuendogli una probabile ubiquità, alcune cronache lo riportano poeta di corte presso Cosimo de` Medici prima, ed a Mantova presso i Gonzaga nello stesso anno: il 1426. Ma il Panormita, come aveva già ampiamente dimostrato, non era uomo da lasciarsi intimorire da spostamenti tanto repentini ed è probabile che sia realmente riuscito ad onorare entrambi gli incarichi. A dicembre dello stesso anno, poi, parte per Roma per rimanervi fino a tutto il 1428. La primavera lo vede di nuovo in viaggio. Transita per Genova, dove si reca in visita dal governatore, l`arcivescovo milanese Bartolomeo della Capra, dopodiché parte subito per Pavia, dove si propone due obiettivi: terminare gli studi ed entrare alla corte dei Visconti. Gli riescono entrambe le cose, ed in più si rende conto di alcuni meccanismi che lo spingono verso componimenti epici ed encomiastici nei confronti del mecenate di turno. Prenderà così le distanze dall`appena composto Hermaphroditus (**), quasi ripudiandolo, per dedicarsi al nuovo filone. A conferma della bontà delle nuove intuizioni, il primo di dicembre del 29 viene nominato Poeta Aulico presso quella corte, e nel maggio del 32 imperatore Sigismondo l`incorona d`alloro. Nel 1430 ottiene un insegnamento a Pavia, per la bella somma di quattrocento fiorini d`oro. Ma la pacchia non dura e molto presto l`allettante somma si riduce ad appena trenta fiorini, il che lo induce a fuggire da Pavia verso Napoli, da dove non si allontanerà più, se non temporaneamente per gli incarichi di corte: fu infatti ambasciatore a Firenze nel marzo del 36, (tornerà poi di nuovo a Firenze ed a Ferrara, Bologna, Venezia e Roma nel gennaio del 1451 ed in fine, al fianco di un giovanissimo G. Pontano, a Genova nell`ottobre del 53). Entra in contatto con Alfonso d`Aragona, il Magnanimo, durante un viaggio che quest`ultimo svolge in Sicilia negli anni 34-35 del 400, a ttratto dalla fama che l`Aragonese si era procurato di essere tutore delle arti e mecenate della cultura. I due scoprono immediatamente una sintonia culturale, che permette al Beccadelli di comparire da subito nelle vicende che coinvolgono Alfonso. E` già presente alla battaglia di Ponza del 5 agosto 1435, dove Alfonso viene sconfitto, ed in quella occasione ha già accanto anche il Valla(Storia di Napoli, vol. IV pg. 206-209). La conquista di Napoli da parte dell`Aragonese non sarà, come vedremo, una passeggiata. Alfonso la condurrà dal quartier generale di Gaeta, appena dietro i confini tra il regno di Napoli e lo Stato pontificio, e fin da allora vorrà il Beccadelli al suo fianco anche con incarichi diplomatici, oltre che come segretario. I precari equilibri territoriali videro Alfonso, nella corsa alla conquista del regno di Napoli, contrapposto ad una quadruplice alleanza tra lo Stato pontificio, Firenze, Siena e Venezia. Per la verità, in origine, di tale alleanza faceva parte anche il Ducato di Milano. Ma ci si può ben ricordare, affidandosi alle reminiscenze scolastiche, quanto fosse facile sovvertire tale tipo di accordi. Quando il duca di Milano si trovò a dover fronteggiare una ribellione di Genova, la quadruplice decise di schierarsi in favore dei genovesi. Fu così che il duca di Milano, trovatosi dall`altra parte della barricata, cercò l`alleanza con colui che la quadruplice avversav a: l`Aragonese. Val qui la pena di ricordare l`origine del rapporto tra i due: all`indomani della sconfitta di Ponza, Alfonso venne tratto prigioniero dai vincitori ed affidato in custodia al duca di Milano. E` lecito ritenere come questaconvivenza forzata tra i due sovrani abbia contribuito in modo decisivo alla creazione di un rapporto di conoscenza e di stima reciproca. A questo aggiungiamo i meriti che il Beccadelli, solo pochi anni prima, si era procurato alla corte di Milano (v. inizio della presente pagina). A questo punto è evidente la funzione di primissimo piano che deve aver svolto il Panormita in questi frangenti. Ed infatti Alfonso lo inviò immediatamente a Firenze e Siena, affinché queste città (dietro minacce neanche tanto larvate) non ostacolassero il passaggio delle truppe milanesi nel loro spostamento verso il regno di Napoli, dove sarebbero dovute giungere in aiuto di Alfonso. In questo quadro di precarietà, il più pericoloso per Alfonso si rivelò il Pontefice Eugenio IV, singolare figura di guerriero più che di prelato. Il regno di Napoli, agli occhi del papa, doveva essere una naturale dipendenza dello Stato Pontificio. Era pertanto abbastanza normale che anch`egli nutrisse velleità di conquista su di esso, e tentò di raggiungere lo scopo stringendo alleanza Renato d’Anjou, storico nemico dell`Aragonese. In questo momento di fibrillazione diplomatica e di grandi tensioni, appare in alcune fonti un attimo di confusione relativamente alla figura del Panormita, poiché attorno alla corte del papa gravita un altro personaggio con funzioni diplomatiche, che le cronache ricordano con un appellativo che può ingenerare confusione. Si tratta di tal Panormitano(v. sopra pg. 2), al secolo Nicolas de Tudeschis (o Tudischis) - 1386/1445, monaco benedettino e giurista, il quale successivamente divenne vescovo di Palermo e legato pontificio di Eugenio IV al Concilio di Costanza (cfr. Cardinal Bessarion, De Arcanis Dei, edizione critica a cura di Girard J. Etzkorn. Ed. Miscellanea Francescana, Roma 1997)
Parlavamo di precarietà degli schieramenti, ed infatti,
dopo la conquista del regno e precisamente nel 1443, ritroviamo Alfonso alleato
di Eugenio IV, al quale dava il suo riconoscimento ufficiale contro l`antipapa
Felice V, ricevendo in cambio un sostanziale riconoscimento del proprio dominio
sul Regno di Napoli (inclusi territori di appartenenza incontestata dello Stato
Pontificio, quali Benevento e Terracina, in qualità divicario pontificio),
nonché un tacito consenso sulla successione di Ferrante, tenuto conto della
qualità di figlio illegittimo di quest`ultimo. La nuova alleanza di Alfonso,
rappresentava per Eugenio un sostanziale aiuto contro le insidie dell`esercito
di Francesco Sforza: una bella confusione! Dopo la conquista del regno di Napoli
- dicevamo - Alfonso nomina il Beccadelli consigliere, oltre che conservargli
l`incarico di ambasciatore. Lo nomina inoltre segretario (incarico documentato
nelle Lettere Campane) e gli affida l`educazione del figlio Ferrante, futuro re.
Beccadelli si era rivelato un collaboratore prezioso quanto devoto nel bisogno.
Ora che tutto appariva più calmo, il sovrano reduce dalla guerra potette
finalmente lavorare alla pace ed alla rifondazione della cultura. La crisi
culturale legata all`ambiente durazzesco, aveva sottratto materia alla vita
intellettuale napoletana (inviati del governo fiorentino e romano a Napoli per
l`acquisto di testi, tornarono a casa con le pive nel sacco lamentandosi del
degrado e dell`approssimazione culturale in cui era caduto il Regno). Non che
mancassero ingegni. Questi erano piuttosto incapaci di produrre linfa. In questo
quadro, Alfonso iniziò a riorganizzare il tessuto connettivo
dell`intellighenzia, attirando letterati ed uomini di pensiero da ogni parte
d`Italia oltre che - beninteso - dalla sua nativa Spagna. Il monarca fu sempre
al centro del fermento culturale, ed a sua volta seppe circondarsi delle persone
giuste. Il Beccadelli fu senz`altro una di queste figure. Si iniziò a far
rivivere i testi classici, a trattarli in dispute critiche, a ricopiarli ed a
tradurli dalle lingue originali affidando il compito spesso a letterati
stranieri che traducevano dalla propria lingua madre (Giorgio da Trebisonda,
Benedetto Gareth, Nicolò Sagundino ecc.). Questo portò alla corte anche
letterati greci, oltre che una fitta rete di collaboratori anche esterni al
Regno. I nomi degli intellettuali importati dai vicini domini italiani si
sprecano: Lorenzo Valla, tra questi, proveniente da Roma, o Poggio Bracciolini
da Firenze. Lo stesso Beccadelli, come abbiamo visto, pur regnicolo per nascita,
era sostanzialmente portatore di una cultura formata alle corti del nord e del
centro Italia. In questo modo la Corte aragonese riuscì a conquistare un posto
centrale nella cultura europea dell`epoca. La lingua ufficiale, nelle occasioni
culturali, non era il volgare, guardato con sospetto, bensì il latino.
L`utilizzo del greco, invece, veniva valutato come una pura ostentazione da
studentelli imberbi, per tal motivo sprezzantemente definitigrecizzanti Come in
tutte le corti che si rispettino, anche qui si crearono dei modelli cui
ispirarsi. Al di là della mitizzazione letteraria della figura reale, che in
quel contesto assunse connotazioni tutt`altro che scontate, ponendosi finalità
politiche ben precise, l’altra figura mitizzata dai poeti di corte, e perciò
anche dal Beccadelli, fu - neanche a farlo a posta - la bella Lucrezia D`Alagno,
favorita del Re. Alfonso era sposato, in Spagna, a Maria di Castiglia.
Matrimonio infelice, voluto per ragion di stato contro la tendenza del giovane
sposo. Maria era di salute cagionevole, non bella, e l`unione non aveva portato
il sospirato erede alla corona. Oltretutto, in quel periodo era lontana.
(Ferrante fu infatti concepito al di fuori del matrimonio di Alfonso con la
propria legittima consorte). La bella Lucrezia era originaria di Amalfi, di
famiglia non nobile e questo pesò sul suo rapporto col re. Ciò non impedì - come
dicevamo - che la regina morganatica divenisse musa ispiratrice dei poeti di
corte. Il Beccadelli le dedicò, tra gli altri, questi versi: Quantum rex
proceres, quantum Sol sydera vincit, tantum Campanas superat Lucretia nymphas
Nell`ambiente di corte, il fermento culturale non si manifesta solo nelle
dispute poetiche, mezzo questo, utilizzato peraltro anche con fini di studio
oltre che cortesi. Beccadelli fu sposato per ben due volte, ma nelle cronache
non ve n`è gran traccia. Nel 1453, in Lombardia, prendeva in moglie una tal
Filippa, morta poco tempo dopo di parto. Della seconda moglie invece conosciamo
le complete generalità: era napoletana, si chiamava Laura Arcelli ed assicurò al
Nostro una nutrita discendenza. Il Panormita morirà a Napoli nel 1471, il 19 di
gennaio.
La Famiglia Nobiliare dei Beccadelli
(*) Josep Piera, Un bellissimo cadavere barocco, Ed. Pironti, Napoli 1990
(**) Si riporta qui di seguito un elenco delle opere che ci sono giunte,
ascrivibili al Panormita e nel presumibile ordine cronologico:
1) Hermaphroditus. Riprende in modo spregiudicato la trattazione di argomenti
erotici, sulla scia di Marziale e Catullo, in dispregio della morale corrente in
periodo aragonese. L’opera, che vide luce nel 1425, rispecchia la costante
licenziosità dei comportamenti del Beccadelli e la sua viscerale avversione e
ribellione contro ogni forma di ascetismo, attestati anche in tutti i suoi
precedenti soggiorni nelle altre città (questo modo d’intendere l’esistenza, è
probabilmente alla base dei contrasti che sorsero successivamente col Valla).
2)Epistole Gallicae; colorito quadro sulla concezione di vita negli ambienti
settentrionali in cui visse l`autore;
3) De dictis et factis Alphonsi regi; (1455) opera encomiastica, non scevra da
impegno politico teso ad affermare la validità del dominio aragonese;
4) Liber rerum gestarum Ferdinandi regis dedicato a Ferrante d`Aragona, figlio
di Alfonso il Magnanimo;
5) Epistolae Campanae; insieme a fonti del Pontano (Dialoghi, in particolare l`Antonius,
dove il Pontano da voce ad un altro accademico, il Compatre, che descrive le
modalità speculative del Beccadelli), la più importante testimonianza degli
argomenti trattati nell’Accademia e le modalità di comportamento e di
trattazione.
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