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Michele Scoto

 

 

Amalgama di articoli a cura del dott. Luigi Braco


Orizzonte Culturale

 

Volendo identificare i nomi che maggiormente impressero la propria impronta nella storia successiva dell’alchimia, sicuramente un posto privilegiato spetta proprio a Michele Scoto, l’astrologo di corte di Federico II. Traduttore dall’arabo in latino della "Sfera" di Al-Bitruji, del "De Anima" aristotelico e del relativo commento di Averroè, egli porta inoltre a termine le traduzioni del commento di Avicenna al "De Animalibus" di Aristotele, nonché, probabilmente, del "Dei Coelo et Mundo" col relativo commento di Averroè. Dedicato all’imperatore Federico II, egli compose un "Liber introductorius", che, diviso in tre parti (il Liber Introductorius, il Liber Particularis e la Physiognomia) rappresenta una delle più complete summae astrologiche e scientifiche del basso Medioevo. Di particolare interesse e risonanza la "Physiognomia", che per lo Scoto è la scienza ingegnosa della natura che permette di conoscere virtù e vizi di ogni animale e che dunque è importante per osservare le caratteristiche degli animali e degli uomini. La scienza fisiognomica di Scoto appare diretta figlia della Fisiognomica dello Pseudo-Aristotele, non priva di influssi provenienti dalle opere dell’arabo Razi e dagli scritti di Pietro D’Abano. L’indagine della natura è argomento privilegiato dell’opera, nonostante in essa l’astrologia sia la tematica di gran lunga principale. In particolare, ampio spazio è dedicato al problema della generazione. Nell’intento di operare una classificazione del sapere, problematica abbastanza presente nella filosofia medioevale di stampo aristotelico, egli compose una "Divisio Philosophie", opera probabilmente ispirata ad una analoga opera del Gundisalvi (autore cui dovette avvicinarsi durante il soggiorno spagnolo), a sua volta riferibile ad uno scritto di Al-Farabi. Ma se nelle opere citate sono rinvenibili diversi riferimenti all’alchimia ed alle concezioni ermetico-alchemiche, tali temi divengono oggetto privilegiato di altre opere specifiche: "l’Ars Alchemie" ed il "Lumen Luminum". Con queste opere, lo Scoto assurge, nell’immaginario dei contemporanei e dei posteri, alla cattedra di maestro sommo, al punto che al suo nome si associano, già pochi decenni dopo la sua morte (avvenuta intorno al 1235), trattati alchemici sicuramente pseudoepigrafici. Tra questi, il più famoso è senz’altro la "Questio curiosa de natura Solis et Luna", ormai considerato apocrifo per le frequenti citazioni di autori ed opere di pochi anni posteriori alla morte dello Scoto, come il "De Mineralibus" di Alberto Magno e la "Summa Perfectionis" dello Pseudo-Geber.

L’alchimia dello Scoto, di chiara matrice araba, attinge alla tradizione dei ricettari medievali attribuiti ad Ermete, ma soprattutto al "Liber de Aluminibus et Salibus", opera tradotta in latino già da alcuni anni e che veniva attribuita, per affinità di motivi e di stile, all’arabo Razi. In realtà, in base a più recenti ricerche, l’opera, ascrivibile al XII° sec., nacque probabilmente in ambienti scientifici spagnoli. Altra fonte è probabilmente un "Liber Dedali Greci" che si conserva manoscritto e di cui si attribuisce la traduzione dal greco allo stesso Scoto, anch’esso in gran parte mutuato dal "Liber de Aluminibus". Ma se l’impalcatura generale delle opere alchemiche di Scoto è riferibile alla speculazione scientifica e filosofica araba, un gran numero dei suoi procedimenti sembrano mutuati direttamente da fonti orali, cui lo Scoto fa talvolta riferimento diretto e su cui la storia non ci ha tramandato nulla.

Conviene ricordare il ruolo leggendario e magico con cui lo Scoto, degno erede del Vergigno mago tramandatoci dalla trecentesca Cronica di Partenope, è entrato nell’immaginazione popolare, tanto della patria natia, quanto della meridionale terra d’adozione.

Lo Scoto era aduso servirsi, per i suoi spostamenti, di un focoso e nero cavallo alato e, per gli ospiti dell’imperatore Federico, più di una volta egli si prodigava con efficaci incantesimi atti a far apparire, in men che non si dica, ricche e stupende tavole imbandite. In questi banchetti, probabilmente, faceva la sua comparsa una delle trovate a nostro avviso migliori dello Scoto, un magico bariletto dal quale il vino non cessava mai di zampillare. Pare però che la magia finisse quando un curioso ruppe il fondo del bariletto per carpirne il segreto, trovandovi solo l’immagine argentea di un angelo che premeva un grappolo d’uva. Interrogato un giorno dall’Imperatore circa la distanza tra il cielo e la terra, dopo una brevissima riflessione, secondo quanto tramanda Fra Salimbene da Adam, rispose con accortezza e saggezza. Interrogato nuovamente il giorno seguente (dopo che il birichino Federico II aveva fatto abbassare a bella posta dalle sue maestranze il pavimento della stanza imperiale) egli pare rispondesse che, per quanto ne sapeva, o la terra si era allontanata dal cielo, o il cielo, nottetempo, si era allontanato dalla terra. Con estrema semplicità, egli, per concedere un poco di refrigerio ad un imperatore forse poco aduso alla torrida temperatura del meridione italiano, faceva, con gesti appropriati, scrosciare brevi acquazzoni rinfrescanti. Un cavaliere, concessogli da Federico II per difendere il mago da alcuni nemici, in grazia dei servigi resi allo Scoto ne ebbe in regalo terre, ricchezze e una bellissima moglie da cui non tardò ad avere anche dei figli. Un bel giorno, lo Scoto, ritenendo forse di aver già troppo beneficiato il cavaliere, lo rapì in magico volo riconducendolo all’imperatore Federico, dove l’attonito cavaliere scoprì che quelli che gli erano sembrati anni erano, in realtà, pochi minuti, e che moglie, ricchezze e figli erano solo l’illusione indotta dall’abile mago. - di Massimo Marra. 

Approfondimento: Arturo Graf e La leggenda di Michele Scotto

 

 

Biografia

 

Michele Scoto, in inglese Michael Scot (Scozia, 1175 circa – 1232 circa o 1236), è stato un filosofo scolastico, astrologo e alchimista scozzese, attivo presso la corte siciliana di Federico II di Svevia. È considerato il più importante averroista medievale, anche se non fu un seguace delle tesi averroistiche, il primo a far conoscere i commenti di Averroè alle opere aristoteliche in Occidente, contribuendo al recupero del retaggio filosofico aristotelico nell'Europa latina.
Scozzese d'origine, si formò forse a Oxford e Parigi, mentre a Toledo (dove fu nel 1217), allora centro della cultura ispanico-moresca, apprese l'arabo e tradusse molte opere, con un importante contributo alla diffusione delle teorie di Aristotele in Europa, tramite la traduzione delle opere di Averroè e Avicenna. Si attribuiscono a Michele Scoto la versione greco-latina dell'"Ethica Nicomachea" e la traduzione arabo-latina dei commenti di Averroè alle opere aristoteliche.
Quale esperto di matematica, filosofia e astrologia entrò alla corte dell'Imperatore Federico II di Hohenstaufen, per il quale fu filosofo ed astronomo e avrebbe fatto molte predizioni, alcune delle quali riguardanti varie città italiane. All'imperatore è dedicata fra l'altro la sua traduzione dell'"Abbreviatio Avicenne de animalibus", ancora con il commento di Avicenna. Il suo nome viene citato da Dante Alighieri nel canto XX dell'Inferno (all'interno della bolgia degli indovini) come Michele Scotto; egli era noto ai tempi di Dante per essere stato una sorta di mago alla corte del re di Sicilia e imperatore Federico (secondo la leggenda avrebbe predetto a Federico II il luogo della sua morte in una località dal nome di un fiore, che fu poi Castel Fiorentino nei pressi di Torremaggiore).

« Quell'altro che ne' fianchi è così poco,
Michele Scotto fu, che veramente
de le magiche frode seppe 'l gioco. »
(Dante Alighieri, Inferno - Canto ventesimo, vv. 115-117)


Sue si diceva fossero anche molte profezie sull'avvento dell'Anticristo, la cui figura ebbe vasta risonanza grazie al poema di Adso da Montier-en-Der (Libellus de Antichristi). Sulla fama di Michele come personaggio dotato di capacità di indovino e profeta si soffermò Giovanni Villani il quale scrisse:

« E bene difinì il grande filosofo maestro Michele Scotto quando fu domandato anticamente della disposizione di Firenze, che ssi confa alla presente matera; disse in brieve motto in latino: "Non diu stabit stolida Florenzia florum; decidet in fetidum, disimulando vivet". Ciò è in volgare: "Non lungo tempo la sciocca Firenze fiorirà; cadrà in luogo brutto, e disimulando vive". Ben disse questa profezia alquanto dinanzi la sconfitta di Monte Aperti. » Citato in Piero Morpurgo, Michele Scoto, in Federiciana, 2005.


Viene citato come Michele Scotto anche da Giovanni Boccaccio (che ne tramandò anch'egli la fama di maestro di negromanzia) nel Decameron, e più precisamente nella nona novella dell'ottava giornata (dedicata alle beffe).

« Dovete adunque, - disse Bruno - maestro mio dolciato, sapere che egli non è ancora guari che in questa città fu gran maestro in nigromantia, il quale ebbe nome Michele Scotto, per ciò che di Scozia era, e da molti gentili uomini, de' quali pochi oggi son vivi, ricevette grandissimo onore; e volendosi di qui partire, ad istanzia de' prieghi loro ci lasciò due suoi sofficienti discepoli, a' quali impose che ad ogni piacere di questi cotali gentili uomini, che onorato l'aveano, fossero sempre presti. » Giovanni Boccaccio, Decameron, Giornata VIII, novella 9.


Tutte queste notizie, frutto di vociferazioni del tempo, sono segno del fatto che si intendesse diffondere la leggenda del carattere diabolico della corte di Federico II in un'epoca di forti contrasti politici con la curia papale. Michele fu in realtà uno dei tanti studiosi, tra i quali Leonardo Fibonacci, Guglielmo di Saliceto, Rolando da Cremona, Jacob Anatoli, certo tra i più preclari, che frequentarono il cenacolo federiciano, nel quale l'imperatore cercava frequenti consulti con molti scienziati e nel cui contesto si sviluppavano anche aspre contese scientifiche e dottrinali. La seconda versione del famoso libro di Leonardo Fibonacci sulla Matematica, "Liber abaci", fu dedicata a Michael Scot nel 1227 d.C. ed è stato suggerito che lo stesso Michael Scot abbia anche giocato un ruolo nella presentazione della Successione di Fibonacci. Uno studio recente di un passo scritto da Michael Scot sugli arcobaleno multipli, un fenomeno che è stato compreso solo dalla fisica moderna e da recenti osservazioni, suggerisce che Michael Scot poteva perfino avere avuto contatti con il popolo Tuareg nel deserto del Sahara.

Nell'Ars Alchemiae, Scoto offre un trattato di alchimia in cui l'enfasi cade sulle operazioni pratiche, presentando un quadro documentato della diffusione dell'alchimia nel mondo mediterraneo contemporaneo. L'opera offre interessanti paralleli con il De aluminibus et salibus di Razi e la Schedula diversarum artium di Teofilo da Stavelot.

Approfondimento su Treccani

 

Opere

 
"Liber introductorius"
"Liber de particolaribus"
"Mensa Philosophica"
"Physionomia" - versione in italiano antico.
"Ars Alchemiae"
"Divisio Philosophiae", di cui ci son pervenuti solo frammenti
"Quaestiones Nicolai Peripatetici", opera andata perduta

 

 

Tomba di Michele Scoto - Melrose Abbey - Scozia

 

Qualcuno disse che Scoto fosse morto in Cumbria; altri, che fosse morto all’estero per poi essere seppellito nell’abbazia di Melrose, in Scozia. Pare che avesse predetto che sarebbe morto per la caduta di un sasso, per cui indossava sempre un casco di ferro. Ma, secondo una versione della sua morte, mentre era a messa, in Italia, si scoprì il capo durante l’elevazione, e in quel momento una pietra si staccò dal soffitto, uccidendolo.

 

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